C’è un volumetto, scoperto anni fa per strane vie, che in questi giorni ho avuto il bisogno di tirar fuori dalla mia libreria: La vita non è in ordine alfabetico (Einaudi, autore Andrea Bajani). Una piccola raccolta di brevi racconti, aperta e chiusa da un’altrettanto breve cornice, in cui un maestro di scuola mette davanti agli occhi curiosi e meravigliati dei suoi alunni le lettere dell’alfabeto. Le estrae da una scatola di legno, gli alunni accorrono intorno alla cattedra, si fa silenzio: “Le lettere dell’alfabeto sono ventuno. Possono sembrare poche”, dice, “ma con queste lettere, d’ora in poi dovrete fare tutto. Con ventuno lettere […] si può costruire e distruggere il mondo, nascere e morire, amare, soffrire, minacciare, aiutare, chiedere, ordinare, supplicare, consolare, ridere, domandare, vendicarsi, accarezzare”.



Sfogliando i racconti, messi in ordine alfabetico dalle parole che li introducono, emergono squarci di umanità quotidiana, storie silenziose e nascoste di attimi profondi, sentimenti e sguardi e domande e dolori e affetti che scorrono sotto le pieghe della vita, che mostrano l’universo che vibra silente nelle parole. Il titolo della raccolta è lì, ossimorico contraltare alla struttura del testo e chiave di lettura dei racconti, a ricordarci che c’è sempre qualcosa che sfugge, che si rompe, un montaliano “filo da disbrogliare”,  un “anello che non tiene”, “che finalmente ci metta nel mezzo di una verità”.



Amo le parole: sono porte che aprono mondi, vie d’accesso alla conoscenza di sé e del reale, mani che offrono alla vita infinite possibilità di comprendere, esprimersi, crescere, comunicare, cambiare. È per questo che ho molto a cuore, nel mio insegnamento, l’apprendimento del lessico; cerco sempre di trasmettere agli alunni l’attenzione e la passione per le parole. È uno degli aspetti più belli del mio lavoro, gesto di cura e passione che dona all’altro opportunità per vivere e “realizzare la sua vocazione di essere umano” come dice Todorov a proposito della letteratura.

Da tempo ho smesso di scandalizzarmi della povertà lessicale denunciata da molti, del dilagante impoverimento della lingua italiana che proietta un’ombra di colpa sulle nuove generazioni, e con pazienza ho provato in tutti i modi a gettare, nelle mie ore di lezione, semi che possano far nascere alberi grandi e ricchi di frutti, tenuto conto anche del fatto che le aule delle nostre scuole sono piene di alunni non italofoni il cui bisogno, a proposito delle parole, è grande ed estremo; tenuto conto anche del fatto che in generale, e tanto più nella scuola del primo ciclo, gli studenti sono in fase acquisizionale del lessico, e il terreno è particolarmente fertile e favorevole.



Penso all’insegnante come ad un artigiano delle parole, chiamato a indicarle, a mostrarne l’uso, offrirle alla libertà di chi lo ascolta. Qualunque disciplina esso insegni, fa un lavoro con le parole: trasmette segni, termini, usi specifici, ne svela la precisione e l’orizzonte, ne racconta la storia, ne scopre insieme agli alunni il contenuto, dà loro le parole per nominare oggetti e comprendere fenomeni. “Quante parole abbiamo trovato”, dice De Amicis al giovane lettore cui si rivolge ne L’idioma gentile, scorrendo con lui il dizionario sotto la lettera P, “che ci hanno destato un ricordo storico, portato l’immaginazione in ogni parte del mondo, a cose remotissime di spazio e di tempo”.

Ripenso in questi giorni alla ricchezza del lavoro fatto in classe tutti gli anni sulle parole: la “festa” settimanale in cui ogni alunno scriveva su un foglietto uno dei nuovi termini imparati e il motivo per cui lo voleva festeggiare; lo “scrigno delle parole”, una scatola con vocaboli un po’ difficili che mi divertivo a infilare nei miei discorsi; l’abitudine scherzosa per cui ogni volta che qualcuno mi chiedeva di andare in bagno doveva farlo usando una di queste parole propriamente nel suo discorso; il gioco “delle quattro parole”, venutomi in mente in un’ora di supplenza e poi usato anche in altri contesti, in cui davo indicazioni di ricerca lessicale anche far ripassare le parti del discorso e sviluppare il pensiero creativo (“quattro aggettivi per la tua cartella, quattro verbi dello sport, quattro parole che ti rendono felice…”); o i “dizionari affettivi”, che ho costruito con i miei alunni su diverse tematiche, in cui ognuno doveva trovare una parola legata ad un certo argomento e darne una definizione personale (“casa: il posto con dentro le persone che ami”, aveva scritto una mia studentessa); le “parole della storia”, per cui quest’anno ho selezionato, raggruppandole per quanto possibile in categorie, 100 termini della storia di terza che ritengo essenziali e che ho (nelle fredde sere di inverno) inciso con il pirografo su bacchette di legno dipinte e colorate collocandole, man mano che le imparavamo, in un vasetto dal quale gli studenti le dovevano estrarre durante le interrogazioni; ma penso anche ai vocaboli quasi impossibili di cui dovevano provare a dare delle definizioni, e il tentativo della caccia al tesoro inventata per far desumere il significato di un termine dal testo in cui era inserito, e alle infinite domande che scrivo sui testi per guidarne la comprensione.

So bene che è un lavoro, quello sul lessico, in cui spesso si ha la percezione di non riuscire a misurare i risultati: cosa imparano, quello che imparano, come lo vedo, come lo valuto. Ma si è formata in me la convinzione che l’apprendimento del lessico passi come per osmosi dall’uso che l’insegnante fa della lingua e dall’essere immersi in un ambiente che cura, promuove, tratta bene, guarda e cerca le parole. È per questo che può capitarti, dopo che in una giornata grigia hai detto con simpatia alla classe mezza addormentata di fare qualche sorriso in una giornata “plumbea” (spiegando il significato dell’aggettivo alle facce perplesse che ti guardavano), di sorprenderti a ritrovare più tardi questo termine nei loro scritti.

Lascia tracce, questo lavoro. L’ho visto anche quando, di fronte “all’urlo nero delle madri” trovato in una poesia di Quasimodo, spiegando la figura retorica della sinestesia attraverso il suo nome e come è composto (connessione di percezioni ottenuta accostando parole riferite a sfere sensoriali diverse), un alunno ha esclamato, entusiasta: “Ma allora prof, nell’anestesia è quando i sensi non ci sono più! È per questo che la fanno quando ti operano!”. Vale la pena, allora, provare tutte le strade e lasciare a un tempo più lungo il raccolto.

È per questo che anche in questi giorni di sospensione delle attività didattiche ho inaugurato una “rubrica della parole”: ogni giorno con brevi audio e filmati illustro qualche vocabolo, la sua formazione, le espressioni che gli sono legate, l’uso che ne facciamo. Scelgo parole da ciò che stiamo affrontando e dalle occasioni che si presentano, da ciò che spiego nelle mie videolezioni. È un’occasione anche per me di riscoprire queste parole, e di offrirle come doni, regali, compagnia discreta e gratuita in una distanza che a volte pare incolmabile. La gratuità – è una delle scoperte più intense di questo momento – è il fondo vero di ogni insegnamento, di ogni cosa che abbia a che fare con la mia professione di insegnante ma ancor prima con la mia “vocazione di essere umano”.

“Come sono le reti dei pescatori?” chiede Neruda nella celebre scena del film Il postino a Mario Ruoppolo. Lui risponde con un aggettivo che stupisce perfino il poeta: “tristi”. Dentro la parola che Mario usa c’è tutta la percezione che ha di quella realtà, drammaticamente documentata nella prima parte del film. Mario Ruoppolo ha trovato in sé un aggettivo per leggere quello che accade dentro di sé e per descriverlo. È la domanda di un altro, e il rapporto con lui, a guidarlo e muoverlo in questo passo che segna il confine tra la trascuratezza dell’io e il sentirsi vivere nel profondo. Quel confine che ogni giorno, anche dietro uno schermo del pc come stiamo facendo ora e per come possiamo, non cessa di essere la soglia più vera di un rapporto umano che sia educativo.