Di fronte a questo panorama della scuola, tre (come minimo) sono gli interrogativi che inevitabilmente si pongono a chi cerca di capire come sia possibile organizzare in forma democraticamente partecipata l’istruzione nelle società complesse.
Il primo riguarda la possibilità di creare strutture nelle quali la potestà e la responsabilità (sempre inscindibilmente connesse) del dirigente siano adeguatamente configurate e bilanciate dalla partecipazione legittima di quella che, con orrendo nome, viene definita “l’utenza”, ossia l’insieme dei fruitori del servizio scolastico: studenti e genitori.
Il secondo riguarda la figura centrale del dirigente e la sua funzione in un contesto nel quale non è assolutamente pensabile la posizione di un uomo solo al comando, sia con funzioni tecnico-scientifiche sia con compiti giuridico-amministrativi.
Il terzo riguarda il ruolo degli enti di governo, nazionale, regionale e comunale (senza trascurare per ora anche il fantasma residuale delle province) e l’armonica relazione fra le loro competenze (si pensi quanto in questo settore sarà importante l’autonomia regionale della quale si sta animatamente discutendo in questo periodo).
È fin troppo evidente come l’ingenuo entusiasmo per la “democrazia nella scuola”, che animava tante persone negli anni Settanta (docenti scolastici e universitari, presidi e ispettori, genitori e studenti, intellettuali e politici) oggi non tanto si sia esaurito, ma trasformato in una esigenza nuova, che è quella di avere un servizio che funziona, sul quale poter intervenire come in qualsiasi altra struttura di diritto pubblico. Quella visione utopistica aveva costituito il terreno ideale sul quale erano germogliati i decreti delegati, portatori di una nuova esigenza culturale ed educativa proiettata verso una stagione nuova, diversa da quella “gentiliana” nella quale era nata, vissuta e prosperata una scuola ritenuta anacronistica, perché “autoritaria e fascista, selettiva e classista, esclusivista ed elitaria”.
Il fatto è che, come dal 1924 al 1974 erano passati cinquant’anni, esattamente altrettanti ne sono passati dal 1974 ad oggi. E dunque? Nella Knowledge Society non si può più “giocare a fare sul serio”. La scuola è una realtà con la quale non si può più scherzare: un sistema che richiede attenzione strategica, consapevolezza strutturale, competenze molteplici e complesse. Il concetto di partecipazione non si può ricondurre a evanescenti modalità di coinvolgimento emotivo, a irenici e volontaristici atteggiamenti di paternalismo mascherato da generosità; richiede concrete e disciplinate strutture di democratica e moderna amministrazione. Il mondo giovanile non va più trattato come realtà marginale, innocua e periferica. Deve porsi al centro dell’attenzione politica e culturale della società adulta. Benedetto XVI direbbe che si tratta di una questione di “ecologia umana” (Caritas in veritate, n. 51).
E dunque, “Che fare?”. Mi affido non ad affermazioni perentorie, ma a domande che sanno di essere provocatorie, proprio perché ineludibili.
A quando un consiglio di amministrazione che sia il vero organo di indirizzo e sviluppo dell’istituzione scolastica? A quando la vera e piena autonomia delle reti di scuole nella selezione e nell’assunzione dei docenti, sganciata da immani concorsi nei quali la vita delle persone vale quanto un numero estratto al lotto? A quando la definizione del ruolo e della funzione del dirigente scolastico, auspicabilmente profilato come il direttore editoriale di una casa editrice o come il direttore responsabile di un giornale, non come il pupazzo amministrativo “sempre in piedi”, senza staff e a potestà limitata, con enormi responsabilità, da prendere a pugni per tutto ciò che non va? A quando la definizione formale di uno stato giuridico dei segretari e l’esigenza di una laurea almeno triennale per la loro assunzione? A quando la configurazione di un organo collegiale regionale che non sia come certe diete imperiali meramente esornative, privo di qualsiasi funzione amministrativa e fatto solo di fumo da marcare nei biglietti da visita distribuiti da frustrati cacciatori di cariche inutili? A quando una riconfigurazione generale dell’amministrazione scolastica in un unico sistema, che non viva più sull’attuale scandalosa distinzione delle posizioni fra personale ministeriale e personale della scuola?
A quando una ridefinizione seria dello stato giuridico e delle carriere dei docenti, per i quali si prospetti la varietà di situazioni che oggi la complessità del sistema richiede? Basti solo, a questo proposito, dire che i docenti incaricati di compiti di collaborazione con il dirigente non son qualificati come “figure di sistema”, ma come “funzioni obiettivo”. La smaterializzazione della persona, la sua reductio ad usum per la paura (sindacale e politica) di creare una nuova figura professionale, è persino offensiva.
Concludo. Mi sembra chiaro, sulla base di quanto sono venuto dicendo, che il concetto di partecipazione negli organi collegiali vada radicalmente ripensato alla luce del valore primo, che fino ad ora ho tenuto sullo sfondo di queste riflessioni, quasi come il convitato di pietra di questo nostro confronto, ovvero l’autonomia scolastica.
Ad essa dedicherò un prossimo intervento. Mi permetto solo di chiudere con una battuta: senza una vera autonomia la partecipazione resterà come al solito fumo negli occhi, illusione olfattiva per chi crede di accostarsi a un pranzo e invece sente solo l’odore dei cibi che vengono da un ristorante vicino. Questa benedetta autonomia, delineata da un meraviglioso regolamento (il DPR 275/1999) che vi sia ogni circolare, ogni ordinanza, ogni decreto “il dice, ove sia niun lo sa”.
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