La scuola è un mondo complesso in cui convivono esigenze molto diverse: il bisogno di educazione del singolo e quello di equità per la collettività, la dimensione affettiva della relazione interpersonale e quella di un percorso oggettivo certificabile, la ricerca di senso per sé e la realistica collocazione rispetto alla collettività (o standard), l’accensione stupita dell’intelletto e la dura fatica dell’apprendere logiche disciplinari impegnative. Il miracolo è quando sono riconosciute le diverse esigenze che concorrono a creare questo mondo complesso, per comporle in un “luogo” vivo dove tutto abbia la sua giusta collocazione.



Quando si parla di scuola, invece, è facile cadere nelle contrapposizioni: conoscenze vs. competenze, amore e passione allo studio vs. sua importanza anche sociale, erotica vs. misurazione standardizzata, otium disinteressato vs. negotium funzionalista. Ciascuno dei termini spesso risponde a una esigenza reale che si è presentata o ripresentata in un preciso momento (anche se magari se ne parla dai tempi di Socrate), e che va soddisfatta in quel momento; ma alla fine, se si ignorano le diverse istanze a cui ciascuno dei “poli” corrisponde, si cade inevitabilmente nello schieramento ideologico.



Non c’è dubbio che il centro della scuola sia il docente “presente” a sé stesso e alla classe, capace di coinvolgere i giovani in una sua passione, ed è vero che c’è stata una deriva nell’indicare le tecniche e le metodologie innovative come chiave risolutiva dei problemi della scuola. Dietro a molte critiche alla scuola tradizionale si annidano vere e proprie mitologie (per esempio il mito dell’autoformazione – v. Antonio Calvani e Roberto Trinchero, Dieci falsi miti e dieci regole per insegnare bene – e quello della coppia insegnamento-apprendimento sbilanciata sul secondo termine – v. Gert J.J. Biesta, Riscoprire l’insegnamento). È vero anche che il problema massimo della scuola oggi è il burocraticismo opprimente, quello per il quale gli insegnanti non riescono più a occuparsi della didattica e dei ragazzi, perché gravati dalle incombenze più disparate.



Tuttavia non credo che la passione passi solo dalla materia, dai contenuti, dal fascino che essi esercitano, dal “fuoco” che l’insegnante sa accendere, e che tutto il resto sia tecnica, metodologia, meccanismo. Il comportamento dell’insegnante quando dà un voto o riconsegna un compito, quando commenta un errore, quando stabilisce i passi in ordine di difficoltà e mette in grado gli studenti di superarle, ha ugualmente una funzione fondamentale, per esempio nei confronti del senso di autoefficacia degli alunni, del loro “capitale psicologico” (resilienza, mentalità orientata positivamente, ecc.). Cioè ha un’incidenza – quasi sempre implicita – proprio sul character. Allora, meglio esserne consapevoli.

Sarebbe bello che davanti a quelle che sembrano solo nuove parole d’ordine ci si chiedesse perché esse emergono, quale bisogno segnalano, quali possono essere le risposte e anche gli inevitabili rischi connessi. Per esempio, le nuove generazioni hanno un livello di fragilità interiore che non va sottovalutato, tanto che paiono ormai obiettivi irraggiungibili proprio l’“avere carattere” in senso lato e saper stare in piedi davanti alle sfide anche più normali (come solo l’essere interrogato). Quanti ragazzi hanno crisi di panico o prendono psicofarmaci, e non riescono ad affrontare la realtà in modo positivo? Per questo la passione dell’adulto serve, ma forse serve anche l’attenzione intenzionale agli aspetti socioemotivi, come dimensione dell’insegnamento.

Io credo che nessuna cosa, nemmeno l’interesse per il character, sia esente dai rischi che possono trasformare un’intuizione giusta in degenerazione dell’idea, ma questo non impedisce di imboccare strade che paiono buone. Semmai bisogna non prendere per panacee dei mali le sottolineature che via via emergono nel panorama concettuale e cercare i correttivi. Per esempio, il character non significa omologazione a un modello standard (per cui tutti dovrebbero essere estroversi, amicali, resilienti, aperti agli altri…), a discapito dell’unicità di ciascuno, ma punta l’attenzione a quella sfera della persona che le permette di avere un rapporto positivo con la realtà. L’identificazione chiara delle dimensioni socioemotive, anche se non genera il “senso” che ciascuno sperimenta nel proprio stare al mondo, può “dischiuderlo allo sguardo” (A. Maccarini).

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