Le nuove Linee guida per l’educazione civica richiedono un approfondimento della nozione di “patria” che la scuola non può evitare.
Durante la rovente estate italiana, in cui è esploso il dibattito tra le forze politiche sullo ius scholae, il ministro Valditara ha introdotto le nuove Linee guida per l’insegnamento dell’educazione civica nelle scuole. Nel secondo punto del testo leggiamo: “si promuove la formazione alla coscienza di una comune identità italiana come parte della civiltà europea e occidentale e della sua storia. Di conseguenza, viene evidenziato il nesso tra senso civico e sentimento di appartenenza alla comunità nazionale definita Patria, concetto espressamente richiamato e valorizzato dalla Costituzione. Attorno al rafforzamento del senso di appartenenza a una comunità nazionale, che ha nei valori costituzionali il suo riferimento, si intende anche favorire l’integrazione degli studenti stranieri”.
L’interessante tentativo del ministro di ripensare l’insegnamento dell’educazione civica, in modo più articolato, pone delle domande sul concetto stesso di patria e di patriottismo. Di quale patria parliamo?
Se si intende come concetto di patria quello derivante dalla Costituzione, si accetta la linea del filosofo tedesco Jürgen Habermas. Il patriottismo, in tale ottica, consiste nella piena lealtà ai principi fondamentali di libertà e democrazia da far crescere, appunto, con programmi di cittadinanza consapevole e cosciente. Tale posizione pone, però, una questione fondamentale. Quale giudizio storico verrà dato sui caduti della prima guerra mondiale e su quelli delle tre guerre d’indipendenza? L’identità italiana ha ancora a che fare con quel tributo di sangue? E i santi, i navigatori e gli eroi preunitari saranno visti come importanti per l’identità italiana?
Se si accoglie invece il concetto di patria formulato dal filosofo scozzese Alasdair MacIntyre entra in gioco un elemento più caldo: la passione. Tale forza consiste in un attaccamento alla comunità non semplice da trasmettere. Implica, infatti, un amore per la terra dei padri e proprio di quei padri. Mette peraltro in campo come decisivo un fattore indecidibile che non esclude, ma precede e inquieta il concetto di cittadinanza. Nella formazione di un uomo, insomma, incide il patrimonio ereditato e consapevolmente fatto proprio. Beni archeologici, artistici e culturali, ad esempio, sono pietre miliari di una storia unica importante per la vita buona.
Che dire poi di un patriottismo della giustizia e della verità? Tale forma speciale implica sentimento e ragione, dunque giudizio. Ferma condanna, dunque, dei crimini commessi dagli italiani “brava gente” (Debra Libanos e uso di gas in Etiopia) e della politica “della strategia della tensione” favorita da attori interni ed esterni, in chiave di limitata sovranità nazionale, con omicidi di molte vittime innocenti e di servitori dello Stato. Viva memoria, soprattutto, delle vittime del dovere che hanno dato la vita per il Tricolore italiano. Necessaria sottolineatura, inoltre, del valore del volontariato come espressione di responsabilità verso il prossimo, la società, il territorio.
Ma veniamo, ora, a un altro punto del testo ministeriale. Troviamo scritto che l’identità italiana è una parte della civiltà europea e occidentale. Ora, se intendiamo l’identità italiana nel solo senso politico attuale ciò è vero. Ma, se riteniamo valido ciò che scriveva Dostoevskij, le cose cambiano e di molto. Ecco le riflessioni del genio russo: “per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo: l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi quella papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano”.
Per Dostoevskij, insomma, l’Italia non è una patria (il Regno dell’abile artefice Cavour), ma una civiltà con un’idea precisa: quella dell’unione di tutto il mondo. In effetti i potenti pilastri culturali-religiosi universali, volentes nolentes, hanno avuto come centro irradiatore l’Italia: 1) La strutturazione della razionalità filosofica come bene comune (Grecia e Magna Grecia); 2) L’universalismo dell’Imperium romano (Roma); 3) Il cristianesimo (Roma); 4) L’idea di bellezza del Rinascimento (Firenze); 5) La rivoluzione scientifica galileiana.
Bisogna fare a questo proposito, però, una necessaria precisazione. L’universalismo italiano è ben differente sia dal cosmopolitismo illuministico, che dall’occidentalismo di matrice anglosassone. Non afferma un mondo senza confini per viaggiatori senza radici o l’egemonia giusta e fondata di una parte del planisfero, ma la necessità di un bene più grande che sia per tutti, nessuno escluso. Nella sua specificità, tale universalismo risulta eccedente anche rispetto alla restrizione identitaria giuridico-economicistica dell’europeismo recente, peraltro differente dalle idealità dei padri dell’Europa (Adenauer, De Gasperi, Schuman). L’universalismo italiano, infatti, è caratterizzato da un’eccezione vitale che è molto diversa dall’eccezionalismo fideistico di matrice americana. Si basa non sull’affermazione di validi principi astratti, ma di una vita vivente aperta al dialogo e all’altro. Non è un caso che il grande pensiero filosofico italiano, dimenticato nelle scuole o poco studiato, sia portatore di uno stile differente, in cui è centrale la persona nella storia e nel suo destino. Vico, Galluppi, Rosmini, Del Noce, Pasolini e anche Gramsci (per alcuni aspetti) costituiscono una radicale sovversione rispetto all’attuale omologazione elitario-globalista. Lo studio dei filosofi italiani con l’approfondimento di Dante, Leopardi e Manzoni può dare, perciò, linfa vitale al secondo punto delle nuove linee guida sull’educazione civica.
Riassumendo. Possiamo notare che nell’identità italiana vi è, in ultima analisi, una non semplice tensione tra il concetto di patria e quello di universalismo. Ad essa si aggiunge negli italiani, come ulteriore complicazione, l’amore per il proprio dialetto, i propri cibi, la propria città e regione. Essere italiani, insomma, è davvero uno spiazzamento, uno sloggiamento dall’autosufficienza sicura di sé e dalla certezza delle definizioni logiche.
Se guardiamo gli avvenimenti recenti, poi, non possiamo dimenticare l’innamoramento che tanti connazionali hanno vissuto nei confronti della squadra femminile di pallavolo. Le vincitrici dell’oro olimpico a Parigi sono state un esempio bellissimo ed esaltante della tensione ideale tra universale e nazionale. Tutte le ragazze (diverse di origine non italiana), infatti, hanno cantato l’inno nazionale, mano nella mano, con passione, con commozione, con gioia. Si è reso evidente che nella vita delle ragazze di origine non italiana c’è stata tanta brava gente che ha comunicato senso della comunità, dell’appartenenza, dell’accoglienza. Volti positivi di umanità attenta e vera.
La cordialità della buona gente, però, può non bastare. Abbiamo tutti bisogno di volti che ci ricordino, nella scuola e nella società, anche e soprattutto la profondità delle nostre radici spirituali. E che dicano che i popoli, come gli uomini, non vengono dal nulla. Tutti abbiamo un’origine e un destino comune.
Un gigante della storia, San Giovanni Paolo II, che aveva vissuto il dramma della sua patria attaccata nella seconda guerra mondiale dai due totalitarismi, scriveva: “Quando penso ‘patria’ – esprimo me stesso, affondo le mie radici, è voce del cuore, frontiera segreta che da me si dirama verso gli altri, per abbracciare tutti, fino al passato più antico di ognuno”.
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