L’impressione di un grande cortocircuito politico-pedagogico si rafforza dopo avere assistito al Meeting di Rimini ai dibattiti sul futuro dell’istituzione scolastica nel nostro Paese, arricchiti anche dalla presenza del ministro Valditara. La cui prospettiva politico-culturale è decisamente curvata sul versante di una scuola concepita non tanto come introduttiva alla società, ma essa stessa definibile come luogo di comunità e socializzazione. E questo può essere un bene, perché impegna le persone che vi operano a non delegare ad altri (enti esterni, università, strutture di supporto sanitario) il compito che loro spetta.
La questione si fa delicata quando si rifletta sul nesso tra competenze non cognitive (soft skills o non cognitive skills), di cui tanto si parla anche in relazione alla proposta di legge d’iniziativa dei deputati Lupi e Colucci che, dopo essere stata approvata dalla Camera dei deputati il 3 agosto 2023, è ora al vaglio del Senato, e le nuove Linee guida del MIM per l’insegnamento dell’educazione civica.
Se infatti le competenze non cognitive attengono, come è stato precisato in sede di dibattito in Commissione cultura del Senato (20 marzo 2024), agli ambiti emotivi, sociali e relazionali, alle capacità comportamentali, alle caratteristiche psicologiche (come l’ottimismo) e a sistemi motivazionali intrinseci ai vissuto personale, tali abilità possono certamente essere sviluppate mediante opportuni programmi educativi ma ultimamente non possono essere “insegnate” come se fossero contenuti da apprendere tramite la didattica. È piuttosto il contesto educativo della scuola o della famiglia che rende fruibili ed esprimibili le soft skills attraverso una paziente interrelazione tra due libertà, quella del docente (che dovrà modificare certi stili di comunicazione tradizionale) e quella dell’alunno del quale dovrà essere in qualche modo risvegliato l’interesse per la realtà nel suo complesso. In questo senso, e opportunamente, il disegno di legge di cui sopra prevede, all’atto dell’entrata in vigore della normativa, un “piano straordinario di azioni formative, di durata triennale, rivolto ai docenti delle scuole di ogni ordine e grado”.
Posto tutto ciò, e cioè l’importanza delle competenze non cognitive nella crescita complessiva della persona e l’utilità di una loro valorizzazione nell’ambito scolastico, come si concilia tale progetto con la preoccupazione, fortemente istituzionale (tanto da essere definita “costituzionale”), che sottende le Linee guida per una rinnovata educazione civica (si noti: non “educazione alla cittadinanza”) che entreranno in vigore nel prossimo anno scolastico 2024-2025?
Nell’ottica di queste indicazioni, si legge nel testo che le illustra, “viene evidenziato il nesso tra senso civico e sentimento di appartenenza alla comunità nazionale definita Patria, concetto espressamente richiamato e valorizzato dalla Costituzione”.
Ora, la Patria non è una conoscenza non cognitiva, ma proprio il contrario: si tratta di una memoria, di una storia, della raccolta di contenuti filosofico-artistico-letterari attorno ad un nucleo che il documento definisce “appartenenza a una comunità nazionale”. Non a caso il medesimo precisa che “la valorizzazione dei territori e la conoscenza delle culture e delle storie locali promuovono una più ampia e autentica consapevolezza della cultura e della storia nazionale”.
La Patria dunque è un percorso della coscienza e nella coscienza, che non avviene solo perché il contesto scolastico è predisposto all’accoglienza dell’alunno. Occorre anche centrare il tema, enuclearlo, cogliere le opportunità di un suo rilancio (feste nazionali? feste religiose?).
Inoltre, se questo è il perno della “nuova” educazione civica, il concetto di Patria implica anche gli studenti stranieri, cui si fa cenno nel testo in questo modo: “attorno al rafforzamento del senso di appartenenza a una comunità nazionale, che ha nei valori costituzionali il suo riferimento, si intende anche favorire l’integrazione degli studenti stranieri”. Viene da chiedersi in proposito che senso possa avere tale integrazione, arricchita dai contenuti di cui s’è detto, che non si concluda in effetti con la concessione di una cittadinanza a chi non la possiede. Forse che le Linee guida intendono aprire alla prospettiva dello ius scholae che sta infiammando il dibattito politico?
Ecco quindi che il cortocircuito tra una scuola delle abilità e una scuola delle conoscenze appare in tutta la sua drammaticità. In questo frangente esaltato da due indirizzi che sembrano insistere su presupposti molto diversi, se non alternativi, ma continuamente presenti nell’operatività di ogni giorno all’interno delle aule. Nell’attesa che, se vi sono, le ambiguità si chiariscano, pare importante tornare al punto che tutti i documenti e tutti i protagonisti di qualche tavola rotonda di argomento pedagogico non perdono occasione di sottolineare: il valore della persona. Che non si coglie se non si recepisce nell’alunno, o in chiunque ci stia di fronte, la dose di sofferenza che magari inconsapevolmente il mondo attuale sta trasmettendo alle sue creature. Sofferenza nei più deboli e nei più fragili, negli emarginati e solitari, in coloro che non riescono a competere e ad ottenere risultati eclatanti. Nei più piccoli emerge magari come irrequietezza, nei più grandi come angoscia e disturbo dell’apprendimento.
È forse il segno più evidente che all’emergenza educativa del nostro tempo si risponde certo con più scuola, ma soprattutto con più educazione. Intesa nel senso giusto: compagnia guidata verso un destino comunque buono.
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