È stato siglato qualche giorno fa un patto per l’istruzione (Patto per la scuola al centro del paese), sottoscritto dal ministro Bianchi e dai rappresentanti delle parti sociali. Un “vaste programme”, secondo la celebre battuta attribuita, fra gli altri, al generale De Gaulle. Nel senso che le ambizioni, non dissimulate, che sostengono il Piano devono poi fare i conti, a partire dal testo stesso, con i mille tabù del politicamente corretto e del timore di smuovere equilibri consolidati: di cui tutti si dicono insoddisfatti, ma che al tempo stesso temono di abbandonare.
Più in generale e, purtroppo, non per la prima volta, la visione del ministro Bianchi si connota per una divaricazione fra il piano degli obiettivi – forse sarebbe meglio dire delle intenzioni – e quello degli strumenti operativi. Un respiro ampio ed una visione apprezzabile per il suo impegno sociale e culturale contraddistinguono in genere il primo aspetto: un insieme di formule generiche e non impegnative, quando non un imbarazzante silenzio, sono il tratto distintivo del secondo.
Nel caso presente, non si può non apprezzare nel Piano appena sottoscritto la rilevanza e il numero degli ambiti su cui si pensa di intervenire: perfino troppi per un governo che ha davanti a sé, nella migliore delle ipotesi, meno di due anni di vita operativa. E che, sarà bene ricordarlo, non ha ancora superato l’emergenza delle emergenze, cioè la piena ripresa dell’attività didattica nelle aule. Ma si cercherebbe invano, nelle otto pagine del documento, l’indicazione degli strumenti operativi e soprattutto dei punti di discontinuità che si pensa di marcare rispetto al passato. Perché è inutile illudersi che i problemi con cui ci si vuole misurare possano essere risolti se non ci si misura con le cause che li hanno generati, a partire da una revisione dei ruoli fra l’esecutivo e le parti sociali. Proprio la presenza massiccia e ai massimi livelli di queste ultime intorno al tavolo della firma non consente di essere ottimisti. Se, come è verosimile, esse vorranno difendere le scelte fin qui compiute con il loro concorso (o per loro impulso) in quasi tutti gli ambiti oggetto di esame, non è lecito attendersi niente di sostanzialmente diverso da quanto fin qui constatato: se mai, solo con costi più elevati, perché “investire in istruzione” è un mantra sempre ben accetto. Anche, e soprattutto, quando non ci si sofferma a distinguere sulla profonda differenza che esiste fra “investire” e “spendere”.
Spigolando fra i ben 21 punti di cui si compone il documento, non si può non rimanere colpiti da quello relativo alla formazione in servizio dei docenti, in cui si evita con cura di fare riferimento ad eventuali obblighi per gli interessati; ma in compenso ci si preoccupa per ben due volte in quattro righe di far salve “le prerogative degli organi collegiali” e di “garantire la libertà di insegnamento”. Dov’è, in questo, la novità? Si investiranno, forse, risorse aggiuntive, ma tutti rimarranno liberi di continuare a fare quel che hanno sempre fatto: gli insegnanti competenti di aggiornarsi e gli altri di non farlo.
Non diversamente per quanto riguarda l’impegno di assicurare la copertura di tutti i posti in organico fin dal prossimo 1° settembre: promessa mille volte fatta, ma senza che – neppure questa volta – si prendano in considerazione le condizioni che la renderebbero possibile. È del tutto inverosimile che gli uffici dell’amministrazione scolastica, sempre più in affanno, riescano a fare quel che il ministro promette senza che cambino le regole e gli attori del gioco. Al 1° settembre mancano appena tre mesi, estate e ferie compresi: e ancora non è neppure definito l’organico che occorrerebbe coprire. Fino a quando la competenza per le nomine non passerà alle scuole, ciascuna per i posti da coprire che la riguardano, con nomine vincolanti (da subito e per tutto l’anno) per loro come per gli aspiranti docenti, il problema resterà nei termini in cui lo conosciamo. Un ginepraio di graduatorie, di ricorsi, di opzioni, di rinunce, in cui il diritto all’istruzione resterà impantanato fino a novembre inoltrato.
Un’altra condizione organizzativa, non nuova (già sperimentata nella scuola primaria) e neppure particolarmente onerosa rispetto agli organici di potenziamento, potrebbe riguardare la gestione degli spezzoni orari inferiori all’orario di cattedra. Invece di costruire con grande fatica cattedre orarie fra due o più scuole, con tutti i ritardi e le complicazioni del caso, basterebbe prevedere che per gli spezzoni fino a nove ore le scuole provvedano con attribuzione ai docenti interni (che, ovviamente, dovrebbero essere pagati in più, ma non dovrebbero poter rifiutare) e per quelli da dieci ore in su si attribuisca il posto completo, lasciando qualche ora a disposizione per i progetti ed il potenziamento. Già solo l’eliminazione del tempo necessario a costituire e coprire le cattedre orario esterne, che sono le meno ambite, farebbe risparmiare parecchie settimane. Se poi tutte le nomine fossero effettuate dalle scuole, e sia pure sulle graduatorie provinciali, allora sì che il miraggio del “tutti in cattedra al 1° settembre” potrebbe diventare realtà.
Lodevole, sul piano del dover essere, l’impegno a contrastare la dispersione scolastica e gli abbandoni: ma l’accenno alle “risorse per la contrattazione” sembra alludere alla consueta strategia di moltiplicare i progetti e le ore di recupero senza cambiare i fondamentali: per esempio, senza pensare ad introdurre nei piani di studio, attualmente blindati, spazi di opzionalità e di attività diverse dalle lezioni teoriche. L’esperienza, ormai pluriennale, dei Pon non ha insegnato nulla? Proprio i territori in cui sono stati finanziati migliaia di progetti contro la dispersione sono quelli che continuano a registrare i livelli più alti di abbandoni. Essenzialmente, per due ragioni: a) il finanziamento svincolato da ogni rendicontazione sui risultati; b) l’utilizzare, come medicina, dosi ulteriori delle terapie già utilizzate e che non hanno funzionato. Cioè, altre ore di lezioni teoriche, tenute dagli stessi insegnanti che non sono riusciti ad “agganciare” la curiosità dei loro studenti al mattino; e, naturalmente, con gli stessi metodi. Di buone intenzioni sono lastricate, come è noto, le strade più pericolose: soprattutto quando si insiste ad operare scelte governate da assunti politico-sindacali e non dai dati di esperienza.
Ancora. “Programmare percorsi formativi per il reclutamento e la formazione del personale amministrativo, tecnico e ausiliario delle scuole”. Lodevole proposito, invero: puntualmente contraddetto dalla prassi dei passaggi di qualifica interni, tenacemente voluti e difesi dal sindacato e non contrastati dall’amministrazione. In forza di essi, i collaboratori scolastici diventano assistenti amministrativi senza neppure i fondamenti minimi della funzione. E, prima o poi, sostituiscono i Dsga assenti, per la lunga latitanza dei concorsi che non vengono banditi o non vengono condotti a termine. Tra il dire e il fare, esiste ancora una volta uno scarto che non si comprende se e come si pensa di colmare.
“Programmare percorsi formativi per dirigenti in relazione alle metodologie di direzione, coordinamento e di supporto alla progettazione didattica e a quella gestionale e amministrativa”. Un enunciato che suona quanto meno ironico, provenendo da coloro – amministrazione e sindacati – che sono sempre stati i più fieri avversari dei poteri di direzione dei dirigenti scolastici e che li sommergono quotidianamente di minuti quanto irragionevoli adempimenti esecutivi. Dimenticando inoltre sistematicamente il divieto – che pure è posto per legge – di richiedere dati di cui l’amministrazione è già in possesso.
Si potrebbe continuare, ma si tratta di un esercizio largamente inutile: il punto chiave è sempre lo stesso. A qualificare un piano degno di questo nome non è il numero e neppure la dignità degli obiettivi enunciati, ma la scelta degli strumenti operativi e la determinazione – non con generiche formulazioni, ma con fatti concreti – di metterli realmente in atto.
L’esempio della campagna vaccinale in atto, a lungo impantanata nelle dichiarazioni di intenti e poi sbloccata nel giro di settimane dalla messa in campo di una risorsa competente e determinata, dovrebbe insegnare qualcosa. È lecito purtroppo temere che, nel caso della scuola, non sarà così e che questa sarà soltanto l’ennesima occasione perduta.
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