Le due monete fresche di conio che giacciono sul tavolo della concertazione tra sindacati della scuola, Regioni e Miur sono l’ordinanza sull’organico aggiuntivo di 50mila unità tra docenti e Ata, “con priorità massima data alla scuola dell’infanzia e al primo ciclo di istruzione, con particolare riferimento alla scuola primaria” (parole della ministra Azzolina) e il Protocollo d’intesa per garantire l’avvio dell’anno scolastico.



I 50mila costituiscono il famoso contingente battezzato dai sindacati come l’esercito di “precari usa e getta”. La possibilità di immettere nella scuola un personale a tempo determinato e soprattutto licenziabile senza indennizzo, in caso di sospensione dell’attività didattica in presenza, dovuta ad un ritorno massiccio della pandemia, risale alla legge 77/2020 del 17 luglio (Decreto Rilancio). All’art. 231 bis, la legge individua due percorsi dettati dall’emergenza: 1) la deroga al numero minimo e massimo di alunni per classe previsto dalla normativa; 2) l’attivazione di incarichi temporanei di personale docente e amministrativo, tecnico e ausiliario (Ata) a tempo determinato.



Il precariato nella scuola italiana non è una novità, anche se i numeri reali non li conosce nessuno. Si suppone che su oltre 800mila posti in organico i supplenti costituiscano il 10-13% del totale. Un numero alto che nessun ministro è riuscito ad abbattere, nonostante la cancellazione delle graduatorie degli insegnanti e qualche procedura concorsuale, a irregolare scadenza. E il numero dei precari è destinato ad aumentare in seguito alla ordinanza Azzolina del 5 agosto che, nell’ipotesi di classi più esigue e del bisogno di un maggiore numero di insegnanti a disposizione, va a pescare proprio nelle graduatorie provinciali per attribuire gli incarichi a termine.



Come sempre accade in questi casi, è facile immaginare che i prossimi supplenti Covid anziché subire il licenziamento su due piedi al termine dell’attività pretendano una qualche forma di stabilizzazione.

C’è da chiedersi, a questo punto, perché i sindacati, anziché ripensare tutta la funzione docente e appoggiare la richiesta di autonomia che proviene da tante scuole e da tanti presidi, comportante, perché no, magari anche l’implementazione nell’organico dell’autonomia, con chiamata diretta di un personale che dovrà essere ben conosciuto e formato prima di essere sbattuto nella trincea di un prossimo anno scolastico che dovrà permettere di recuperare, specie nella primaria, anche lo scorso che si è quasi perduto: c’è da chiedersi perché, si diceva, i sindacati coltivino lo statalismo ad oltranza.

Una risposta, forse, la si trova nella posizione della Gilda degli insegnanti, che dopo avere partecipato al secondo tavolo della coniazione delle monete nuove, quello del Protocollo per l’avvio dell’a.s. 2020/21, ha deciso di non firmare l’intesa (gli altri: Cgil, Cisl, Uil, Snals, sì). La Gilda non ha firmato perché il Protocollo non consentirebbe “la riapertura delle scuole in sicurezza”. Evidentemente per gli altri la sicurezza è garantita.

Dunque tutto ruota attorno a questa parola magica: sicurezza. Il Protocollo la garantirebbe? In realtà sorprende la densità di “tavoli” e di figure strane che dovrebbero impiantarsi e aggirarsi nella scuola l’anno prossimo per garantirla: si comincia con l’help desk per le istituzioni scolastiche, per passare al tavolo nazionale (Miur/ministero della Salute/sindacati) per la gestione condivisa della sicurezza, cui si aggiungono tavoli regionali e di istituto. Ogni scuola, ancora, dovrà scegliersi un medico competente che esegua la sorveglianza sanitaria e, più in alto di tutti, uno psicologo per fronteggiare situazioni di ansia o stress di chi vive tra i banchi (naturalmente monoposto!).

L’impressione dunque è che al tavolo della sicurezza divenuta facilmente un’ideologia, perché la sicurezza assoluta è una chimera (e poi non ci avevano detto che tutto era affidato alla nostra responsabilità personale: distanziamento, lavaggio delle mani, mascherine?), si sia svenduta una cosa seria come la professione docente che si sostanzia di cura educativa, responsabilità personale, coscienza dello scopo della conoscenza.

Avrebbe richiesto, tale professionalità, un’attenzione maggiore di quanto risulti da una semplice manovra che allarga i cordoni della borsa del precariato. Ma era troppo ghiotta l’occasione di rivestire la divisa dei controllori del benessere altrui perché Miur e sindacati non stipulassero un patto all’ombra del Comitato tecnico-scientifico, che ormai detta i tempi anche delle nostre coscienze. La scuola certo sopravvivrà al Covid, ne siamo certi. Forse per il buon senso di tanti, come sempre, più che per l’adesione alle procedure.