Nelle strutture pubbliche – parlo di uffici, ma soprattutto di ospedali e scuole –, nelle relazioni che in quei luoghi si creano, domina sempre di più quella che chiamerei una “ragione certificata” o “procedurale” o “protocollata” che sta sostituendo una sana “ragionevolezza”, ormai assente da camere sanitarie e aule scolastiche. Sta sparendo la fiducia, ad essa si è sostituita la logica coerenza procedurale.
Mia madre è stata ricoverata per 10 giorni in ospedale per una polmonite, è entrata che era autosufficiente e lucida per poi uscirne a pezzi e totalmente disorientata. Alle mie domande e perplessità, i dottori hanno risposto con “è quello che accade in questi casi e cosa è previsto come intervento in queste situazioni”. Insomma, curano il male più evidente e urgente, ma non vedono il resto della persona. Non avendo abbastanza personale per gestire il caso, mia madre è stata riempita di sedativi e ansiolitici, fino a renderla irriconoscibile. Alla fine mi hanno chiamato dall’ospedale: “Senta, lei ha già scelto una struttura dove portare sua madre dopo le dimissioni dall’ospedale?”. E io allibito: “Struttura? In che senso?”. Si riferivano a un ospizio. “Scusate, ma fino a una settimana fa mia madre era autonoma, tranquilla… e adesso mi parlate di ospizio?”. Mi rispondono che quella era la procedura, avvisare per tempo i parenti perché il paziente non fosse parcheggiato in ospedale. Alla fine ho portato mamma a casa mia, prima che finisse il periodo di degenza. In una settimana si è ripresa e ha ricominciato la sua vita di sempre. Procedure. E il paziente?
Così a scuola. Ormai si agisce solo sotto la tutela di regole scritte. Un ragazzo si trova male in classe, vive un disagio. I genitori chiedono alla prof un aiuto. La prof: “Guardi, io nel valutare suo figlio ho seguito la griglia che usano in tutto l’istituto. Contenuti, correttezza, pertinenza, originalità… ogni voce ha un peso diverso. Sommando, questa è la media”. I genitori timidamente chiedono quale problema la prof veda nel loro figlio, che non riesce a entrare in classe per il disagio che vive. “Non saprei, però nella nostra scuola chi entra in ritardo deve restare fuori dall’aula fino alle nove. Poi suo figlio a volte mi chiede di uscire… ma sa, il regolamento ci vieta di far uscire dall’aula un ragazzo più di una volta ogni due ore”.
Se poi le assenze superano la tot percentuale di ore, il ragazzo non è più scrutinabile. Ma cos’ha questo ragazzo? Te lo sei chiesto? “Gli ho consigliato di andare al Cic (centro di informazione e consulenza, ndr), dallo psicologo della scuola”. Brava, ma ti sei chiesta che cos’ha che non va? “Devo fare lezione, devo fare il programma, non posso star dietro a tutti i problemi degli adolescenti”. Ecco che la ragione si separa dall’esperienza e le regole, le procedure, prendono il sopravvento su ciò che accade. Fino a schiacciare la realtà stessa sotto il macigno del “come deve essere” che toglie respiro e vita a qualsiasi rapporto, accadimento, relazione.
Anche tra colleghi, nei rapporti con la segreteria o con il dirigente di istituto, è ormai così. Ci si relaziona “per procedura”: quante verifiche hai svolto? dove sei arrivato col programma? quanti voti hai messo? hai presentato le relazione? quando c’è il collegio docenti? è uscito il calendario degli scrutini? Chiedo alla segretaria se posso avere un’informazione su un ragazzo; prima bisogna fare domanda di accesso al fascicolo personale, avere il nulla osta del dirigente, e poi – entro un mese – posso sapere. Avere un dialogo personale con uno studente può comportare mille rischi e il regolamento spesso lo vieta.
Ultimamente, un genitore si è rivolto al dirigente della sua scuola per chiedere consiglio riguardo a un clima di tensione e di non accoglienza che il figlio soffriva nella classe e con alcuni insegnanti. “Mi porti il verbale del tale organo collegiale, di tale e talaltro consiglio in cui si scrive che questo prof o questo ragazzo abbia usato espressioni o abbia avuto atteggiamenti non adeguati. Mi porti il verbale della assemblea degli studenti in cui si parla di rapporti non cordiali tra gli studenti…”. E il genitore che era andato fino alla porta del preside? E la sua presenza preoccupata, la sua domanda viva (non verbalizzata) aveva un peso?
Al posto di una ragione ristretta, che misura e regola ogni comportamento, andrebbe riscoperta una ragionevolezza di fondo che si basa sulla certezza che nasce dal volto preoccupato di una persona, dal clima pesante che si respira in un ambiente, dalla testimonianza che proviene dall’esperienza vissuta dei singoli, dalla fiducia che si ha verso colleghi, amici, persone che ti indicano segnali o motivi di riflessione o di sicurezza. Insomma, a scuola o in ospedale o in ufficio, si dovrebbe parlare e confrontarsi con libertà, non affidarsi solamente a pec, mail ufficiali, verbalizzazioni, domande certificate, timbrate, bollate, griglie, criteri oggettivi, algoritmi e formule per comunicare con chi ci vive vicino. Ci si fida.
Oggi la predominanza della ragione calcolante ha creato ambienti di lavoro e di vita pieni di formalismi, in cui regna il sospetto, la maldicenza, l’invidia, il gossip, la non fiducia, la solitudine. È vero o no che i nuovi mali di questi ambienti sono mobbing, comportamenti aggressivi o vessatori, distress, ansia, fobia sociale, individualismo? Da cosa nascono se non da questo nostro uso ridotto e distorto della ragione?
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