In queste ultime settimane il dibattito sulla scuola aperta d’estate, i soggetti attuatori, l’articolazione del calendario scolastico, l’adeguatezza delle strutture, sta coinvolgendo numerosi interlocutori. L’impressione, in presenza di punti di vista significativi ma controversi (scuola come luogo dell’apprendimento piuttosto che primo e più efficace strumento di socializzazione) è che il dibattito sconti un vero e proprio errore di prospettiva.
Se, infatti, un mosaico genera l’immagine attraverso la giusta distanza con cui si guarda l’insieme delle tessere che lo compongono, così il problema che ci occupa ha necessità della giusta prospettiva per evitare parcellizzazioni. Partiamo dai dati. La scuola è l’organizzazione più articolata del nostro Paese, non solo perché vanta un numero di addetti intorno al milione, ma specialmente perché il numero di utenti a cui rende un servizio pubblico – cioè, di tutti – è pari a un milione e mezzo di studenti. Va da sé che essa rappresenta un’opportunità di dialogo sociale, anche con le famiglie, un luogo reale su cui investire scelte di politica concreta che siano complessive e convergenti.
Penso sia utile riportare una riflessione di Sabino Cassese, pubblicata il 3 maggio sul Foglio, dal titolo La scuola in un cono d’ombra. “Per rendersi conto dell’importanza della scuola, basta volgere lo sguardo alla storia e vedere come scuola e cittadinanza siano andate di pari passo. Nel primo quarantennio di storia unitaria italiana, fino alla fine dell’Ottocento, sulle orme del dibattito che si era svolto in Francia mezzo secolo prima, diritto di voto e adempimento dell’obbligo scolastico furono considerati l’uno condizione dell’altro. Si pensava che, introducendo l’obbligo di frequentare le scuole fino alla licenza elementare e assegnando il diritto di voto a tutti quelli che avessero tale titolo, istruzione e cittadinanza potessero procedere di pari passo, giungendo così al suffragio universale”.
Per fare ancora un esempio, basta ripensare alla vicenda del maestro Manzi, maestro, appunto, di scuola elementare, scrittore di romanzi per ragazzi, autore di programmi televisivi e radiofonici. Insegnante “rivoluzionario”, che attraverso un programma televisivo ha alfabetizzato gli italiani, scardinando le convenzioni dell’apprendimento attraverso strategie alternative, da educatore consapevole. La sua azione di alfabetizzazione degli adulti non fu un’opera solitaria, determinata da una genialità fine a sé stessa – questo è l’aspetto interessante dell’esempio – ma una azione collettiva del ministero dell’Istruzione e della Radio Televisione italiana: 2mila posti di ascolto disseminati in Italia, un programma premiato all’Unesco e un format televisivo venduto in più di 72 Paesi nel mondo.
Insomma, la vicenda che ci occupa è poliedrica. Comunque la si guardi. Interseca l’organizzazione del tempo scuola, la funzionalità degli edifici scolastici, le risorse professionali, le procedure anche di rendicontazione, il bisogno sociale. Investimenti collettivi che sono prima di tutto culturali. E che esige sinergie e un cambio di prospettiva. Reclama tavoli di lavoro e di confronto che possano agevolare un dialogo fattivo e azioni congiunte. Perché il mosaico prenda una forma definitiva. Cordate di responsabilità piuttosto che analisi.
Devo dire che la scuola ci sta provando a sostenere un carico di lavoro come mai prima, spesso con grande gioia nei risultati. Perché, qui nelle nostre aule, uno vale mille. Ogni ragazzo recuperato, integrato, amato, formato, vale infinitamente lo sforzo, l’impegno, il senso e non è mai frutto di una solitudine, quasi sempre di un lavoro a più mani. Forse, ci vuole di nuovo un ministero che possa collaborare con l’informazione pubblica, uno Stato che investa in alleanze e un mucchio di uomini e donne di buona volontà che non hanno paura del futuro. Insieme, però.
Così, forse, potremo dire, quando tutto sarà chiaro, e le paure sfatate, che val la pena guardare il mondo con gli occhi di un bambino. O, per citare il maestro Manzi, che la rivoluzione è una perpetua sfida alle incrostazioni dell’abitudine, all’insolenza dell’autorità incontestata, alla compiacente idealizzazione di sé dai miti imposti dai mezzi di informazione, per questo la rivoluzione deve essere un evento normale, un continuo rinnovamento, un continuo riflettere e fare, discutere e fare.
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