Il volume Introduzione alla realtà totale a cura di Carmine Di Martino pubblicato recentemente con l’apporto di numerosi studiosi del pensiero educativo-pedagogico di Luigi Giussani e presentato a Roma l’11 ottobre scorso costituisce una buona occasione per inquadrare in modo appropriato il contributo del sacerdote lombardo nello scenario della cultura educativa dell’ultimo mezzo secolo.



A mio giudizio è utile e forse necessario guardare Il rischio educativo – nel quale la proposta educativa giussaniana trova la sua più compiuta espressione – nell’ottica non soltanto interna del movimento di Comunione e Liberazione nel quale prese forma. Per l’ampiezza della sua diffusione e l’originalità della sua impostazione le pagine del Rischio rappresentano insieme ad alcuni altri rilevanti scritti più o meno coevi (anni 70-90, cito senza pretesa di completezza La cultura del narcisismo di Christopher Lasch, Lettera a una professoressa degli allievi di don Milani, il testo Unesco curato da Jacques Delors Nell’educazione un tesoro, La testa ben fatta di Edgar Morin, Creare capacità di Martha C. Nussbaum, alcuni documenti dell’Ocse a partire dal rapporto Cresson-Flynn sulla società conoscitiva) uno dei punti di osservazione privilegiati per cogliere le traiettorie dell’educazione contemporanea.



La prima annotazione che emerge dalla lettura di questi testi è rivolta alla diffusa percezione di un netto cambiamento dello scenario che, codificato tra Otto e Novecento, era fondato sulla consolidata visione dell’educazione come uno scontato passaggio da una generazione all’altra di un insieme di riferimenti culturali, consuetudini, valori morali e stili di vita raccolti sotto la comune espressione di “tradizione”. Ne derivò una allarmata esigenza di ripensare i luoghi, i tempi e i contenuti di una educazione coerente con il rapido cambiamento della società occidentale già in corso, anche se i fenomeni della digitalizzazione e della multiculturalità erano già incipienti, ma ben lontani dalle dimensioni e caratteristiche attuali.



La seconda osservazione riguarda il mutamento della cabina di pilotaggio. Filosofi, pedagogisti e psicologi che avevano orientato i processi educativi verso la modernità non sembrarono più in grado di guidare da soli una transizione culturale così complessa e dalle molteplici incognite. Imprigionati in tesi ritenute troppe condizionate dall’opinabilità, furono scalzati da nuovi protagonisti che ambivano a sottrarre i processi educativi al rischio ideologico. All’espressione “educazione” cominciò ad essere preferita la formula “formazione” nel significato anglosassone di training. Sulla ribalta educativa si affacciarono personalità dai nuovi profili: economisti, sociologi, esperti di organizzazione, tecnici della valutazione, esponenti della cultura manageriale, generalmente più interessati e impegnati a inquadrare l’azione educativa – in specie all’interno delle scuole – entro parametri verificabili, misurabili, pianificabili, lasciando alla discrezione di famiglie, movimenti politici e religiosi lo sviluppo delle coscienze personali. Saper risolvere problemi sembrò più importante che interrogarsi sulla loro natura.

Il riassetto dello scenario educativo non mancò presto di produrre notevoli conseguenze e assumere quasi egemonicamente il controllo dei principali centri di elaborazione politico-educativa. Se anche sociologi, economisti e manager non perdevano di vista la persona e il suo destino, il loro prevalente interesse era tuttavia rivolto al miglioramento delle strutture e dei servizi, nella convinzione che esso avrebbe automaticamente accresciuto non solo i livelli di conoscenza, ma anche la consapevolezza etico-critica esito di una buona educazione. In altre parole, si finì per sottovalutare il peso del retroterra valoriale e la forza della relazione interpersonale che da sempre assicurano fondamento ed efficacia all’educazione. Questa sottovalutazione (soltanto parzialmente mascherata dal richiamo alla “cittadinanza attiva”) ha indebolito le virtù proprie della tradizione, ha dato più importanza al “come” che al “perché”, ha orientato in senso funzionalistico le finalità della scuola, ha ridotto la figura dell’insegnante da educatore a facilitatore negli apprendimenti se non, nei casi estremi, ad un semplice impiegato del sapere.

Questo scenario dai tratti fortemente tecnocratico-efficientisti (con qualche attenuazione, per esempio, tra economisti lungimiranti come Amartya Sen e James Heckman) che si andò rafforzando nel transito tra i due secoli, non lasciò indifferenti quanti lamentavano e denunciavano il rischio dell’impoverimento dell’azione educativa, ridotta, secondo questi critici, alla subalternità rispetto alle leggi economiche e alle esigenze del mondo produttivo. Il cittadino virtuoso parve ridotto nell’orizzonte del cittadino consumatore, depauperando la persona della sua umanità, e cioè della cura di ciò che è essenziale ovvero dell’irripetibile originalità di ogni essere umano. Si cominciò a interrogarsi se non si perdesse di vista ciò che rende l’uomo “qualcuno” e non lo riduce a “qualcosa”.

Intorno a questa resistenza si raccolsero varie personalità (che qui non possiamo tutte richiamare), da Edgar Morin, con la sua proposta di cittadinanza terrestre, unica condizione per salvare l’uomo e il pianeta, a papa Ratzinger, con la sua celebre lettera alla diocesi di Roma sull’emergenza educativa, da Martha C. Nussbaum e il rilancio dei valori della classicità perché la vita democratica non smarrisca la sua natura e continui a nutrire la libertà di parola e di pensiero, a Howard Gardner, lo psicologo figura di primo piano del costruttivismo, secondo cui “anche nella società postmoderna occorre qualche criterio per distinguere il vero dal falso, il bene dal male, da ciò che è ripugnante e individuare come vivere da persone responsabili”.

È precisamente in questo scenario che va inquadrata la proposta educativa del Rischio e il suo apporto al fronte di resistenza anti-tecnocratico. Gli scritti d’interesse educativo del sacerdote lombardo documentano con preveggenza, fin dagli anni 50, l’indebolimento della proposta educativa tra i giovani (per Giussani in specie quella ispirata ai valori evangelici) e, più in generale, l’incubazione di una visione relativista ed individualistica della realtà sociale. Alla condivisione della denuncia delle derive dell’educazione contemporanea, la risposta giussaniana manifesta una sua specificità. Essa, infatti, non si ferma al dato etico-politico, ma è intrecciata con la sua visione religiosa e l’annuncio di Cristo come avvenimento contemporaneo, contenendo la tentazione, presente in alcuni settori cattolici, di ancorare l’educazione alla laicità dei valori.

Secondo il sacerdote milanese il punto focale della formazione dell’umano è situato nell’educazione del cuore inteso come luogo dell’interiorità profonda e originale dell’uomo e nella interpretazione della libertà. Una libertà che l’uomo del nostro tempo, frammentato e senza appartenenze solide come nel passato, tende spesso a usare soltanto come uno strumento per salvaguardare e potenziare le sue infinite possibilità d’azione. Educare l’uomo, scrive Giussani, significa invece aiutarlo a scoprire attraverso la coltivazione del cuore l’umano che è in sé e, conseguentemente, a sperimentare una libertà come via maestra per entrare in una totalità nella quale siamo immersi e che l’uomo è chiamato a identificare. L’efficacia educativa è, cioè, legata al maturare, certo graduale e scandito secondo i tempi della crescita della persona, dall’intreccio di intelligenza e volontà, condizione perché il pensiero, l’azione e la speranza dell’uomo si svolgano in una dimensione unitaria nella quale l’esperienza umana può sperimentare il suo momento più alto.

La proposta giussaniana prende in tal modo le distanze dai due principali modelli educativi oggi compresenti nelle nostre società. Il primo – e principale – è quello funzionale all’efficientismo economico-tecnologico che riduce l’umano entro i confini di una pianificazione esistenziale che assicuri benessere, alta capacità produttiva e ordine sociale, a condizione che l’uomo si riconosca nei beni materiali, diventando un perfetto consumatore ed estraniandosi o, per lo meno, diffidando delle tesi opinabili sul senso della vita. Il secondo modello – meno evidente ma praticato da quote crescenti e non secondarie di giovani – è quello nomadico-estetico che concepisce l’umano come un processo fatto dall’accatastamento di una molteplicità di esperienze all’interno delle quali contano soprattutto le sperimentazioni autoeducative senza bisogno degli adulti. Il nomadismo educativo si accompagna fatalmente al nichilismo, un ospite inquietante nella vita di molti giovani, che confonde i loro pensieri, fiacca la loro anima, intristisce le passioni rendendole esangui.

La pedagogia di Giussani ci ricorda che la mondanità del pensiero del nostro tempo è a corto di argomenti per giustificare l’esistenza stessa degli uomini e finisce per deragliare o verso la prospettiva della massima efficienza o verso la disperazione esistenziale. Escludendo tutto ciò che trascende l’umano, natura o Dio, l’esperienza umana è priva di ogni appoggio. Senza la percezione e il riconoscimento del Mistero che si cela in noi e negli altri non c’è infatti esperienza dell’umano e non sono neppure posti i presupposti della libertà. Per questa ragione la fede ha una risposta che continua ad affascinare, può far breccia ed essere accolta perché, come annotava l’allora ancora card. Ratzinger, “essa trova corrispondenza nella natura dell’uomo” in quanto depositario di “un’inestinguibile aspirazione nostalgica verso l’infinito”. Scopo dell’educazione è proprio quello di introdurre a questa nostalgia di infinito. È questa la traccia educativa che scorre dalle pagine del Rischio educativo fino a noi ed è questa la specificità dell’apporto di Giussani al confronto sull’educazione/formazione tra i due secoli.

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