La centralità dell’alunno e dello studente come soggetto attivo nel processo di apprendimento è un mantra nella scuola da tempo. Sempre, però, lo si dice e lo si sente senza che di fatto diventi esperienza di ogni allievo. Ci si riempie la bocca di parole e si aspetta che accada il miracolo della personalizzazione, ovvero dell’apprendere da protagonisti, da persone libere, capaci di comprendere e amare se stessi e la realtà. Ne abbiamo parlato tante volte. Oggi vorrei condividere un’ipotesi di lavoro su come in ogni istituto scolastico si potrebbe vivere e praticare il dramma della valutazione coinvolgendo alunni e genitori prima che questa diventi tragedia.



Parto da un colloquio tra un genitore e una professoressa nel secondo quadrimestre di una scuola secondaria di primo grado: “Come va mio figlio?”, chiede subito la madre. “Così, così … Aveva avuto un 6 nel primo compito, a marzo ha preso 4, di questo passo gli darò 5. Vedremo con il prossimo compito in classe”, conclude l’insegnante.



Notate che il soggetto dei verbi “avere” (aveva avuto, ha), “prendere” (preso) è l’alunno, mentre del verbo “dare” è il docente. Quale sia il processo e quale sia il significato e il senso di “avere, prendere, dare” non vengono esplicitati. Il docente, in questi casi, è un controllore, un arbitro. Lo studente è, in genere, considerato soggetto passivo: riceve e stop. Eppure, l’apprendere insegnato è quell’afferrare con la mente che non ammette sostituti, provoca il cuore, implica responsabilità, coscienziosità, apertura della ragione, grinta, resilienza, cioè una serie di competenze non solo cognitive.



Purtroppo, nella percezione dei nostri studenti, la valutazione è considerata quasi completamente dipendente dall’insegnante e indipendente dalle reali conoscenze acquisite. Anche nell’opinione popolare l’esperienza valutativa con i suoi riti (interrogazioni, verifiche, compiti in classe, correzioni, criteri, voti, ecc.) è un affare che spetta solo ai docenti. Da che cosa dipende questa rocciosa preclusione? La negazione dell’alunno come soggetto attivo nell’atto valutativo è frutto, a mio parere, di una deriva del concetto di autorità e di educazione. Si tratta di una degenerazione visibile a occhio nudo in due forme. Nella prima, in senso lato, l’autorità del docente è ridotta a potere, a funzionario controllore, che indebolisce la magisterialità ovvero la capacità dell’insegnante a essere “maestro” (come abbiamo già scritto su queste pagine).

Nella seconda, contestualmente al percorso valutativo, si censura il senso e la pratica dell’educare istruendo (scopo della scuola), si produce disagio, paura, ansia, la dispersione scolastica, il fallimento. Sintomi di questo malessere sono, per esempio, l’inerzia (“si è fatto sempre così”), l’imposizione del potere (“dovete fare così”), lo scoramento dei soggetti che operano all’interno della scuola (allievi, docenti, genitori, dirigenti, amministrativi e ausiliari). E addio centralità dell’alunno! Addio protagonismo degli studenti!

Sto forse esagerando? Non mi sembra. Intendo dire che è possibile, legittimo, necessario, conveniente che l’alunno sia ”voluto”, guardato, incoraggiato, trattato come protagonista del “fare” valutazione, proprio per la natura dell’insegnamento, dell’apprendimento, della scuola e della stessa valutazione, prima, durante e dopo ogni compito. Questo accade più facilmente, per esempio, quando il docente entra in classe concependosi come uno che ha bisogno di collaboratori nella ricerca del senso delle cose e, quindi, nell’avventura della conoscenza. In questo orizzonte difficilmente l’alunno si pensa e si comporta come antagonista dell’insegnante. È più facile che verifichi l’ipotesi che con “questo insegnante ci posso guadagnare” (imparare) e accetti di impegnarsi nello studio come intrapresa solidale e cooperativa. Intrapresa, perché procede e si sviluppa come azione difficile, impegnativa, dall’esito incerto ed imprevedibile, iniziata e compiuta in risposta ad una provocazione. Solidale e collaborativa, perché lo studio implica sempre un rapporto, una solidarietà, anche con i nostri padri. È protagonista chi ci sta in una compagnia guidata a promuovere in modo cooperativo, dentro una solidarietà di vicende, di compiti, di destino.

Certo se l’alunno non vuole imparare e non apprende, più facilmente diventerà un trascinato o indisciplinato, un “fuori” di testa, insomma. Il docente professionista, appassionato, non si arrende e propone altre modalità per coinvolgere gli studenti come protagonisti nella valutazione. Per esempio, condivide con gli alunni non solo i criteri valutativi, ma anche le ragioni della verifica, di un modo di impostarla, del suo oggetto e dei suoi tempi. “Bonifica” il clima della somministrazione, correzione e consegna delle verifiche. Dà credito al desiderio degli allievi di mettersi in gioco, proponendo di affrontare le prove come una sfida sulla consistenza e sulla qualità del loro apprendimento.

In questo clima anche lo studente che “ha tutti 4” desidera essere guardato e trattato come uno che può cooperare, recuperare e sentirsi ri-convocato con questa attesa positiva, come farebbe il suo allenatore sportivo. Non controllato, né abbandonato o escluso dalla possibilità di entrare in partita. Non è sottoposto al giogo dell’umiliazione, simile a quello costruito con lance ed usato dai sanniti. Penso, per esempio, ai famigerati compitini a sorpresa, o per punizione, o quelli su argomenti non svolti, che sono la negazione del protagonismo degli alunni. Mi viene in mente la confusione tra esercitazione e verifica che regna nelle aule soprattutto alla fine di un trimestre o quadrimestre. La prima è quotidiana (come un allenamento sportivo), la seconda è periodica (come una partita).

L’una e l’altra sono necessarie, contengono una promessa, alimentano la speranza di superare qualsiasi difficoltà, sono strumenti per la personalizzazione. In altri termini, affermano che il docente e gli altri attori della valutazione non sono mai contro lo studente, ma sempre “per” e “con” ciascuno degli allievi. Allora il docente è come Arianna, che consegna a Teseo un gomitolo per uscire dal labirinto; non come Medusa, che ha uno sguardo che fa diventare di pietra chi la guardi. In questa battaglia non possiamo evitare verifiche impegnative. Non possiamo annacquare le prove. Non vogliamo “regalare” agli studenti voti che preannuncino facili successi. Possiamo, dobbiamo e vogliamo, però, rispettare il loro cammino, il loro lavoro, i loro tempi, senza circoscrivere le prove in spazi soffocanti. La scuola non è una caserma. E la valutazione non è premio-castigo, ma co-valutazione e autovalutazione. A questo sono chiamati anche i genitori, come vedremo prossimamente.

(1 – continua)

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