In occasione della presentazione della Fondazione Giulia Cecchettin, presso la Camera dei deputati lo scorso 18 novembre, il ministro dell’Istruzione e del Merito Valditara ha proposto come antidoto alla violenza sulle donne l’educazione al rispetto, nelle scuole, attraverso l’educazione civica. Con la riforma del 2019 infatti l’educazione civica è tornata in auge negli istituti scolastici e dopo l’aggiornamento delle linee guida voluto dal presente governo la materia si presenta oltremodo strutturata in competenze e obiettivi di apprendimento.



La competenza n. 3 relativa al secondo ciclo di istruzione, che ha come obiettivo il corretto rapporto con gli altri nell’esercizio consapevole dei propri diritti e doveri, prevede tra l’altro l’analisi del proprio ambiente di vita al fine di stabilire una “connessione con gli attori che operano per porre fine alla discriminazione e alla violenza contro le donne”. La violenza contro le donne diventa dunque anch’essa una materia di studio, una branca di un ipotetico laboratorio di sociologia o criminologia istituito tra i banchi, per cui conoscendo le cause del male si evitano le conseguenze. Qualcosa di analogo presenta anche la “mission” della Fondazione Cecchettin, là dove recita che la promozione di un cambiamento radicale (delle persone) significa “affrontare le dimensioni strutturali e culturali che alimentano la violenza di genere; potenziare il ruolo educativo di famiglie, scuole e agenzie formative, oltre a coinvolgere ambiti sportivi, lavorativi e legislativi”. Occorre anche, prosegue la home page della Fondazione, “sviluppare strumenti di analisi per identificare le radici culturali della violenza e stimolare interventi innovativi che valorizzino le buone pratiche e ne promuovano di nuove”.



Ma quali sono appunto le premesse di questo fenomeno nuovo e pervasivo? Quali le avvisaglie di questa peste del XXI secolo che è la violenza contro le donne, esseri indifesi come lo solo i bambini, i disabili, gli anziani? Si tratta di una violenza che impressiona tanto più in quanto si realizza nel contesto di una società democratica come la nostra, dove nella normalità dei casi non ci sono discriminazioni di tipo sessuale o religioso, e dove pertanto le morti orribili di Giulia e delle altre cento vittime del 2024 continuano ad apparire come un’eccezione. Una sconvolgente eccezione ma non una regola, come per esempio in Iran, in Afghanistan o nei territori africani egemonizzati da Boko Haram. E su questa dimensione dell’eccezione, nonostante lo strascico di dolore che oggettivamente porta con sé e che fa crollare il mondo addosso a chi la subisce come se non ci fosse più la speranza di una vita degna di essere vissuta, bisogna fare leva.



Come giustamente ha testimoniato Gino Cecchettin, il padre di Giulia, durante la cerimonia a Montecitorio, “non mi sono fatto travolgere dall’odio che mi avrebbe annichilito come persona, rancore e risentimento non mi aiutano, ho scoperto un nuovo modo di vivere guardando a Giulia e me ne sono accorto durante l’udienza con Filippo (Turetta, l’assassino, ndr) nella quale non mi sono fatto travolgere dalla rabbia, perché il mondo è come un ecosistema dove ciascun individuo può iniettare odio o amore, non possiamo cambiare gli eventi che ci sono capitati, ma possiamo cambiare la nostra reazione a quegli eventi e decidere se aumentare l’odio o l’amore”.

Le parole semplici e profonde di questo padre, a cui è stata strappata dopo la moglie anche la figlia, offrono una pista di metodo valida anche per le scuole e il lavoro educativo. In un mondo come quello di oggi dove i legami tra le persone sono rarefatti a causa della perdita del senso della esistenza, è la persona stessa quel luogo misterioso, il cui cambiamento può decidere della trasformazione del contesto. E non viceversa, con buona pace delle impalcature ideologiche che dipingono l’uomo come frutto del caso o del flusso materiale della storia. Oppure anche di quelle fazioni che nella scuola e nell’università manifestano a parole per la libertà della donna soffocando il diritto di chi vorrebbe esprimere una solidarietà verso chi è madre e anche verso il figlio che la madre porta in grembo (è successo a Milano).

Nell’interiorità della persona oggi si svolge una lotta tra il bene e il male che magari cinquant’anni fa si svolgeva nelle piazze. È questa interiorità il nostro inferno o il nostro paradiso. Occorre lasciarla parlare e tendere al suo fine, al suo scopo, che non può che essere il bene (il vero, il bello, il giusto). Certo, deve, o meglio può, essere educata e portata fuori dalla noia e dalla depressione di cui si può ammalare. La cura dell’interiorità non necessariamente è compito esclusivo degli psicologi e degli psichiatri che vanno tanto di moda. È anche compito degli educatori che non hanno “titoli”, se non quelli conferiti dalla profondità umana, dal senso della tradizione, dalla forza di una appartenenza che alcuni possiedono. Il padre di Giulia appartiene a Giulia più che all’odio e al risentimento che lo circonda. Una classe, un adolescente, un giovane appartengono a chi fa vibrare in loro il senso della positività della vita attraverso l’offerta del proprio volgersi al bene.

È l’educazione, come ha testimoniato Gino Cecchettin, il cuore della questione, più che l’analisi emotiva o freddamente statistica cui vorrebbe condurre una certa didattica alla cittadinanza che lascia il tempo che trova. Il rischio che la scuola si istituzionalizzi ancor più di quanto non sia stato fatto finora esiste e gli educatori che scaldano i motori sembrano rarità da cercare con la lanterna di Diogene. Eppure, si può guardare il mondo anche mettendosi al contrario e puntando sulle mani anziché sui piedi, come era, secondo Chesterton, il modo di guadare, tutto pieno di meraviglia, di San Francesco. C’è bisogno di follia per sperare e ricavare la pace anche dai drammi. Non la follia distruttiva di certo nichilismo, bensì quella che rovescia il mondo per trovare il punto di appoggio su cui costruire.

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