Generalmente si crede che a scuola siano solo gli alunni ad imparare, invece non è così. Alla fine di questo triennio mi accorgo di avere imparato forse più di quanto sia riuscita a trasmettere.
Congedando ben due classi terze, seguite fin dalla prima, è evidente che le relazioni che si intrecciano con la famiglia, con le varie umanità che cambiano in modo impressionante nell’arco di un tempo brevissimo, sono fondamentali. Innanzitutto, si tratta di una sorta di fiducia che si instaura tra docente e ragazzi che sconfina talvolta nella sfera personale, sfiorando tasti delicati e profondi; più si riesce ad andare sotto la superficie più si ottengono risultati insperati e insperabili.
Ho in mente due percorsi ben distinti, uno proveniente dal fallimento di una bocciatura e l’altro da uno sradicamento.
Giacomo, il primo, ha ricominciato da zero in un nuovo ambito con compagni motivati e motivanti, ma soprattutto accoglienti, ed è stato un piacere, condiviso con i colleghi, accompagnare i ragazzi in questo percorso ad ostacoli ma, come quando si è in buone mani, si arriva in porto con la barca anche in mezzo alle tempeste. Il clima di fiducia e di onestà che si è instaurato ha infatti permesso di vedere ogni ragazzo e ragazza crescere e cambiare, mostrando il desiderio di godersi ogni momento ed ogni possibilità offerta. Siamo stati fortunati, perché appena possibile sono state create occasioni importanti quali il teatro o il viaggio di istruzione di tre giorni in Provenza.
Il nostro Giacomo, disorganizzato, instabile, scarsamente concentrato e con un’autostima bassissima, fidandosi di noi docenti e dei suoi compagni che l’hanno sostenuto sempre, è divenuto consapevole dei propri limiti, ma anche delle proprie capacità umane, facendone i protagonisti della propria vita. Con il laboratorio di teatro è stato infatti realizzato un musical, West side story, in cui lui era il protagonista; la gioia di quel traguardo lo ha commosso fino ad abbracciare noi insegnanti che l’abbiamo accompagnato.
C’è una collega con la quale ho maggiormente condiviso aspettative, programmazioni e progetti inerenti questa classe e con la quale ci siamo dedicate particolarmente a lui, sostenendolo costantemente, da quando lo abbiamo avuto in carico. La sera dello spettacolo, vedendolo così, mi ha riferito: “Giacomo è stato un piccolo miracolo”.
Nell’altra classe in cui lavoro c’è Piero, arrivato in prima e inserito in corsa in un ambito sgretolato di individualità esasperate senza un controllo, sfiduciati verso i docenti e poco disponibili con i compagni; triennio funestato, oltre che dall’epidemia, da punizioni, note, sospensioni e con l’atteggiamento mai del tutto sopito di ritenere di farla franca se si riesce a prendere in giro i professori. Qui ho sperimentato la fatica dell’essere quasi del tutto sola a voler cavare il buono che comunque avevo intravisto. Senza smettere di sostenerli, ma indicando fermamente il percorso per arrivare alla fine, incitando all’impegno e all’attenzione, si è visto accadere qualcosa quando i ragazzi hanno cominciato a volersi bene l’un con l’altro, sostenendosi talvolta anche contro i professori. Non erano persi: il senso di giustizia, di voler essere trattati bene anche se terribili, li ha salvati.
Chi ha intravisto questo li ha saputi valorizzare. La collega di musica, ad esempio, che li ha aiutati a realizzare prima un rap e infine un podcast in cui si raccontavano.
Piero ha faticato a lasciarsi andare, un lutto familiare importante gli ha tolto completamente la voglia di fare, rendendolo apatico a tutti gli stimoli. Il consiglio di classe si è spaccato in due: chi sosteneva che fosse il caso di fermarlo e chi come me di regalargli la possibilità di un nuovo inizio, linea che poi ha prevalso.
I compagni per primi l’hanno sostenuto, aiutandolo per l’esame come era possibile; lui, incredulo, ha comunque continuato senza capire e senza domandarsi le ragioni di quello che gli veniva offerto. Fino all’esame orale, dove si è probabilmente reso conto e ha biascicato, uscendo, che “forse era meglio se non mi presentavo”, ma lo abbiamo congedato regalandogli questa seconda possibilità, mettendola nelle sue mani, affidandola alla sua libertà.
Non so se capiterà ancora e non so neanche se sia consigliabile entrare così tanto nella sfera personale, ma gli studenti sono persone con tutta una complessità insondabile e incomprensibile che non si possono ridurre a meno di così.
È delicato il nostro lavoro ed è necessario continuare ad aggiornarsi, fare e confrontarci su esperienze e buone pratiche, ma soprattutto è fondamentale avere uno sguardo condiviso sulle classi, dove gli insegnanti siano disponibili ad un lavoro serio di paragone perché imparino gli alunni, ma soprattutto anche i docenti.
La vicenda di Piero ci apre a riflettere sul compito della scuola. Abbiamo spesso di fronte ragazzi disorientati, scarsamente interessati o motivati allo studio, chiaramente sofferenti e a disagio. Non bastano i piani personalizzati, gli obiettivi minimi. Non ci viene in aiuto la tassonomia e non ci si concilia con la pura meritocrazia, dove a tanto impegno corrisponde dato risultato, e tutta la serietà con cui programmiamo il percorso dell’apprendimento e della valutazione non può sottrarsi dal fare i conti con il fattore umano.
C’è molto su cui riflettere. E io voglio credere che tutti gli strumenti che abbiamo a disposizione sia per la valutazione come anche per la correzione siano a servizio del bene dei ragazzi e non possono costituire un ostacolo ad esso.
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