E tutto è tornato (quasi) alla normalità. La scuola in presenza, le gite di classe, i corsi pomeridiani. La si è attesa tanto, questa benedetta normalità, da adombrare un nefasto anniversario, il punto zero della storia scolastica: l’anno scorso, proprio di questi tempi, interrogati dopo 14 mesi se volessero abbandonare la Dad, gli studenti pugliesi scelsero compattamente di rimanersene trincerati in casa. Il messaggio fu inequivocabile: la scuola rappresenta – ruberò qualche verso agli Ossi di seppia di Montale – “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”.
Acqua passata, chiudiamo una volta per tutte quel “malchiuso portone”. Adesso tutto procede normalmente. Né una pandemia né una guerra potrebbero incrinare l’atavico modo di insegnare e di studiare: “giostre d’ore troppo uguali”, ora e sempre “i minuti sono eguali e fissi / come i giri di ruota della pompa”. Neanche ci si accorge che di troppi ragazzi si sono perse le tracce: “assente, come manchi in questa plaga / che ti presente e senza te consuma”.
Secondo l’Istat 1 ragazzo ogni 8 non studia più (in Puglia 1 ogni 5): “svanire / è dunque la ventura delle venture”. Anche nei licei del centro non puoi più dare per scontato che la mattina i ragazzi si presentino. Il problema allora, entrando in classe, non è spiegare interrogare mettere i voti compilare il registro, ma svegliarli uno per uno. Anzi di più: non perderli.
“Spesso il male di vivere ho incontrato”: era il ragazzo che non viene perché “stramazzato” nel corpo o nello spirito, era l’altro chiuso in camera per preparare un test d’ingresso, era il collega che continua imperterrito. Si affaccia un sospetto: non è che chi adesso è qui, a prendere appunti durante questa lezione, lo fa soltanto perché deve? Forse attacca il ciuccio dove vuole il padrone. Diligentemente, sia chiaro, a tratti anche volentieri, e perfino incuriosito, talora addirittura commosso. Ma forse nascondendo la “sostanza” profonda del suo cuore smarrito dietro “la tonaca che riveste / la nostra umana ventura”.
Le materie, del resto, sono nient’altro che un aperitivo: uno spritz che si sorseggia e poi se ne lascia mezzo bicchiere, ché c’è da andare a fumare o a ballare o a vedere un video. Non è che si bevesse poesia o filosofia per l’“arsura” di chissà quale sete. Gli dai italiano e fanno italiano, gli passi un po’ di storia e stuzzicano storia, c’è da “spaccarsi” e vanno a “spaccarsi”. È sempre andata così, la scuola “è questo scialo / di triti fatti, vano / più che crudele”.
Secondo te esagero, e “hai ben ragione tu! Non turbare / di ubbie il sorridente presente”, sono io a vederla nera. “Andando nel sole che abbaglia” la nostra splendente primavera, tutti si agitano in una frenesia di movimenti apparenti: spiegazioni, verifiche, colloqui, “immoto andare, oh troppo noto / delirio, Arsenio, d’immobilità…”.. Eppure mi piovono addosso continuamente i drammi segreti di tanti ragazzi, “so l’ora in cui la faccia più impassibile / è traversata da una cruda smorfia: / s’è mostrata per poco una pena invisibile. / Ciò non vede la gente nell’affollato corso”. Il “cuore” rimane uno “scordato strumento”, che il registro non registra, che nessuno vede.
Ti ammali per una settimana. Prepari video-lezioni, solleciti ciascuno a uno studio personale, ti rendi disponibile a incontrarli a distanza singolarmente. Poi aggiungi al pacchetto l’elemento più rischioso: la libertà. In mezzo ai compiti assegnati, infatti, piazzi la parolina magica: “facoltativo”. Non minacci interrogazioni al rientro. Te la vai a cercare, insomma. Ed ecco che scompaiono, è come se fossi morto: “Ah crisalide, com’è amara questa / tortura senza nome che ci volve / e ci porta lontani – e poi non restano / neppure le nostre orme sulla polvere”.
A scanso di equivoci, specifico che a scrivere è uno che potrebbe vantare fortune riservate a pochissimi: un rapporto di fiducia commovente, eccezioni clamorose, per esempio ragazzi che, se un certificato medico ti impedisce ancora per un giorno di rientrare a scuola, accettano di incontrarsi con te sotto l’albero di un parco. Ma sono eccezioni, appunto, movimenti reali dentro un’industria di movimenti apparenti, passi tracciati controcorrente “su fil di lama”: “agli occhi sei barlume che vacilla, / al piede teso ghiaccio che s’incrina”.
Il nulla che è fuori insidia questi fiori di poesia letta in classe, come se avessimo vinto un buono di 600 ore dal dietologo (4 ore alla settimana, 120 all’anno), e stessimo lì a sorbirci nozioni inerti, senza però voglia di dimagrire, senza infatti dimagrire, senza neppure sentirci ipocriti quando, appena usciti dallo studio medico, andiamo dritti a spararci l’hot dog al chioschetto per strada.
“Ah l’uomo che se ne va sicuro, / agli altri ed a se stesso amico, / e l’ombra sua non cura che la canicola / stampa sopra uno scalcinato muro!”. Non vi viene mai il dubbio che quel che facciamo non serva a niente? che agli esami di Stato tornano gli scritti e invece sarebbe il caso di abolire anche la farsa degli orali? che tutte le attività pomeridiane siano di troppo ma a essere sinceri anche quelle della mattina sono una bella risposta alla domanda di nessuno? che finalmente si fanno concorsi ma visto il modo in cui si svolgono andrebbero aboliti per sempre? che forse la scuola andrebbe chiusa per dare spazio alla scholé, come la chiamavano i greci, ossia al tempo libero?
Sei mai andato a una festa di 18 anni? Hai visto che musica, che discorsi, che vomitate, che pomiciate… hai notato la distanza siderale da Seneca, da Schopenhauer, da Montale? Hai visto il tuo “correlativo oggettivo”, “il tuo occhio della madre”, “il tuo montaggio analogico” della Corazzata Kotiomkin mentre proiettano (cito un altro geniaccio ligure) “Giovannona coscia lunga, L’esorciccio e La polizia s’incazza”?
Sono confronti che non vanno fatti, vi chiedo scusa. Dovrei aver imparato che la scuola è una cosa, la vita un’altra. Appunto. Mi ostino a essere un avventuriero della mattina che pretende di intrufolarsi nella sera, che “cerca una maglia rotta nella rete / che ci stringe”, senza accettare che gli studenti siano solo studenti e illudendosi di poter scavare fino a trovare una goccia d’anima, “l’anello che non tiene, / il filo da disbrogliare che finalmente ci metta / nel mezzo di una verità”; c’è bisogno che “l’ondata della vita” entri nell’aula, che la pagina sappia di vita e la vita di pagina.
“Ed invece non ho che le lettere fruste / dei dizionari, e l’oscura / voce che amore detta s’affioca, / si fa lamentosa letteratura”. La scuola scorre nei suoi confini invalicabili, come colonne d’Ercole di un mare nostrum che non può bastarci, e noi continuiamo “in questo seguitare una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”. Puoi riempirgli la testa di cinquanta autori e di duecento pagine finché rimani “di qua dall’erto muro”, ma, finito il quinto anno, quanti liberamente vorranno – e sapranno – leggere un classico? È su questo che ci si misura, amico. “E noi andremo innanzi senza smuovere / un sasso solo della gran muraglia: / e forse tutto è fisso, tutto è scritto, / e non vedremo sorgere per via / la libertà, il miracolo, / il fatto che non era necessario!”.
Non potremmo, almeno all’ultimo mese del quinto, dopo 13 anni di addestramento, verificare se abbiamo tirato su qualche ragazzo libero o se abbiamo invece solo costruito una gabbia di schiavi? Smetterla con quei fatti necessari che si chiamano verifiche e voti, e giocarcela per davvero. Non leggere il Paradiso di Dante in fretta solo per dichiarare che l’abbiamo fatto: per definizione il paradiso è un luogo dell’eternità fuori dal tempo, perché non rischiare trentatré appuntamenti (o almeno tre) alla fine dei giorni, dopo la maturità? E lì vedremo se si presenteranno in 25 oppure in 10 oppure in 3 oppure nessuno: “l’ora più bella è di là dal muretto”.
“Forse un mattino andando in un’aria di vetro, / arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo: / il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro / di me, con un terrore d’ubriaco”. In un attimo vertiginoso forse scopriremo che, sotto l’apparenza dei belli interventi in classe, non c’era “nulla”. “Poi come s’uno schermo s’accamperanno di gitto” compiti spiegazioni documenti “per l’inganno consueto. / Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto / tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto”. Non saremo più niente, non siamo (mai stati) niente. “Il viaggio finisce qui”.
“Vorrei dirti che no”, ragazzo mio. “Penso che per i più non sia salvezza, / ma taluno sovverta ogni disegno, / passi il varco”. Allora “ti dono anche l’avara mia speranza. / A’ nuovi giorni, stanco, non so crescerla: / l’offro in pegno al tuo fato, che ti scampi”.
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