Alle scuole statali dovrebbero arrivare quest’anno cifre significative legate al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Tre i filoni principali: progetti anti-dispersione, innovazione tecnologica, nuovi ambienti di apprendimento.

Di questo aveva bisogno la scuola italiana? Non solo di questo; avrebbe avuto bisogno di nuovi modelli di arruolamento, di nuovi criteri retributivi, soprattutto di ripensamento radicale delle strutture scolastiche, obsolete e non a norma, ma per questo siamo in alto mare e quindi questo aspetto del sistema per il momento non lo affrontiamo nemmeno qui.



Vogliamo presentare invece qualche ipotesi positiva su alcuni progetti che dai fondi per il Pnrr scuola possono trovare sviluppo.

La possibilità di progettare concretamente percorsi innovativi di natura tecnologica e nuovi ambienti di apprendimento, pur nei vincoli sopra citati, può offrire strade di speranza.

Anche nel passato, soprattutto attraverso i Piani operativi nazionali si è potuto incrementare la strumentazione digitale e tecnologica, ma in questo caso la prospettiva è più di sistema e le scuole vengono sollecitate esplicitamente a progettare in autonomia.



È una grande ed entusiasmante prospettiva: per una volta la bacchetta della direzione sembrerebbero averla in mano le scuole e non il ministero. Mi si conceda una metafora: il grande malato, dalla struttura pachidermica e spesso assonnato, è chiamato a rialzarsi e a provare a ringiovanire. Ce la farà?

Forse. Come? Chiedendo ai docenti, ai più illuminati, ai più visionari, a quelli che ancora hanno negli occhi e nel cuore i volti dei ragazzi a loro affidati, di rimettersi in gioco, di studiare, di scovare in modelli stranieri ma talvolta anche qui in Italia, strumenti, arredi, colori che possano aiutare a far fiorire la dimensione dell’apprendimento.



Perché le nostre scuole, per la verità soprattutto le statali, sono così brutte, organizzate come caserme, con un’ortogonalità prevalente ormai obsoleta? Il modello bismarckiano della scuola dei primi del Novecento si è tragicamente integrato con il peggio dell’innovazione architettonica anni 70, poi, tranne rare eccezioni, il deserto.

Non pensiamo ai gravissimi problemi strutturali, pensiamo pure solo all’estetica. Ora qualcosa può cambiare. Un po’ più di personalizzazione cromatica, un po’ più di verde, un po’ più di bellezza, innanzi tutto, arredi un po’ più leggeri e versatili. Basterebbe approfondire gli interessanti studi di Beate Weyland dell’Università di Bressanone per cogliere quanto aule un po’ più verdi possano confortare apprendimento e insegnamento. Arbore amica di foscoliana memoria!

Ma c’è un altro percorso oltremodo interessante, quello tecnologico. Non si tratta solo di investire per ammodernare strumenti superati, si tratta di impegnare risorse importanti perché si impari più facilmente e serenamente.

È una grande occasione, soprattutto per la scuola superiore, ma non solo, di paragonarsi al mondo produttivo e ricevere spunti, ipotesi di lavoro davvero interessanti.

Al di là del vecchio refrain “la scuola non è un’azienda” stiamo incontrando imprenditori, ricercatori, tecnici desiderosi di accompagnare la scuola nella ricerca di strumenti davvero innovativi, capaci di intercettare le menti e forse anche il cuore dei nostri ragazzi. Non abbiamo ad oggi incontrato venditori cinici desiderosi di far quattrini con la scuola, ma donne e uomini che proprio memori di quanto la scuola sia stata per loro significativa, desiderano mettere il loro know how al suo servizio.

Nel mio ruolo di dirigente sto assistendo a un rinnovato interesse dei docenti a visitare aziende altamente innovative, sto vedendo nascere gruppi di lavoro spontanei in cui scuola e industria guardano alla tecnologia in una prospettiva realmente innovativa, sto osservando nuove dinamiche di carattere interdisciplinare in cui vengono finalmente abbattute le pareti obsolete del disciplinarismo più vetusto.

Rimangono sicuramente criticità relative alle procedure da attivare, alle tempistiche, alle incertezze su come per esempio retribuire i progettisti.

Immagino anche il brontolio di alcuni: la scuola è fatta di persone, non è lo strumento o lo spazio che può generare educazione e cultura. Tutto vero, ma rivedere una scuola in movimento, anche su progetti di natura strutturale, è una novità che va guardata con stupore e gratitudine. Quando l’umano riprende qualche traccia di entusiasmo è sempre un miracolo, anche se viene da Bruxelles.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI