L’uscita del rapporto di Save the Children Riscriviamo il futuro, l’impatto della povertà educativa digitale ha certamente avuto il grande pregio di puntare l’attenzione di un ampio pubblico, e strumentare la rilevazione con dati a livello italiano, su un tema che tuttavia da un anno i docenti e le scuole più attente sottolineano e tentano di affrontare, partendo dall’osservazione dei ragazzi con cui si collegano tutti i giorni e spesso scoprendosi più capaci di problem solving, più attrezzati ad affrontare il digitale, nonostante il divario di età.



“Nell’anno di pandemia la didattica a distanza ha caratterizzato le vite di milioni di studenti e studentesse in Italia. Ma nonostante il tanto tempo passato di fronte agli schermi di pc e tablet, molti di loro risultano impreparati e senza le necessarie competenze per affrontare il mondo digitale che si è loro aperto davanti. Si è configurato in questo periodo una nuova dimensione della povertà educativa, la povertà educativa digitale”.



Discutendo con imprenditori e professionisti mi trovo molto spesso a dover contraddire ciò che ormai è diventata una narrazione diffusa: i ragazzi del nuovo millennio sono nativi digitali. Sul tema è stato scritto molto e, spesso, guardando a figli e nipotini, ci siamo convinti che questa fosse una realtà. Purtroppo però questa è una narrazione che parte dall’osservazione di bambini e ragazzi che stanno in quella fascia non toccata dalla povertà assoluta, fascia peraltro non così irrilevante in Italia, poiché è rappresentata da quasi un milione e mezzo di bambini e adolescenti (oltre il 13,5%). A questa percentuale si aggiungono minori con famiglie svantaggiate dal punto di vista non solo economico, ma anche sociale e culturale, residenti in abitazioni sprovviste di connessione veloce, abitazioni affollate, in cui non esiste nemmeno un pc.



Sono i ragazzi che molto spesso popolano i nostri centri di formazione, i ragazzi che ogni mattina accogliamo e a cui insegniamo un lavoro e accompagniamo ad abbracciare il mondo e la vita.

La povertà economica, che ha dirette conseguenze sull’assenza di connessione nelle case e sulla mancanza di spazi dove studiare in serenità (secondo l’Istat nel nostro paese il 12,3% dei minori non ha avuto a disposizione durante la pandemia né pc né tablet, strumenti indispensabili per restare al passo della didattica a distanza e il 41,9% ha vissuto il periodo del lockdown in abitazioni sovraffollate), porta con sé anche la mancata alfabetizzazione digitale. Ciò significa bambini e ragazzi che non conoscono le caratteristiche e le funzionalità degli strumenti digitali quali computer, tablet, smartphone. Come utilizzare un software di calcolo o di scrittura, un browser, un motore di ricerca o come archiviare materiale, mandare una mail e salvare un file per questi ragazzi non è cosa scontata. No, questi ragazzi non sono nativi digitali! Ci siamo solo illusi che su questo tema non fossero necessari un’educazione e un accompagnamento.

È stata per molti di noi un’esperienza quotidiana vedere i ragazzi connessi solo dal telefonino, oppure rifugiati in bagno perché risultava essere l’unico posto tranquillo della casa, assistere a litigi familiari in stanze troppo strette, o non riuscire a connettersi perché non c’erano più giga a disposizione, ma è troppo spesso una condizione non compresa dalla maggioranza di italiani e quindi non affrontata. Non affrontare questo tema in tempi rapidi significa aumentare drammaticamente il divario tra fasce sociali ed economiche nel nostro paese.

Occorre anche rilevare che l’analfabetismo digitale non riguarda solamente l’area tecnico-informatica e nemmeno solo l’apprendimento in questo anno complicato, ma investe anche dimensioni fondamentali per la crescita dei ragazzi quali la consapevolezza e lo sviluppo, in questo caso del mondo virtuale, di se stessi, della relazione con gli altri, la capacità di lettura critica e di comprensione del mondo.

Le conseguenze vanno anche oltre ed investono l’ambito social (nell’ultimo anno è aumentato il tempo trascorso nel mondo virtuale anche di 3-5 ore al giorno), manifestandosi anche con l’impossibilità di configurare un profilo su un canale social in sicurezza, rispetto della privacy e della propria immagine. E questo fenomeno porta con sé spesso anche l’incapacità di conoscere, comprendere, accettare e rispettare la diversità delle identità, degli stili di vita, delle culture altrui nel mondo digitale, che può sfociare, in casi estremi, in vera e propria discriminazione, intolleranza e cyberbullismo.

Teniamo presente che l’Italia è uno dei pochi paesi in Europa a non essersi dotata di un sistema di valutazione delle competenze digitali, forse per quello snobismo che spesso caratterizza le nostre scuole e che ritiene che sia possibile valutare solamente la “materia” scolastica, quando ben sappiamo che ciò che influenza una capacità di apprendimento è la sommatoria di molti fattori.

Fattori decisivi sono certamente quelli affrontati da Vittadini-Poggi-Chiosso nel libro da poco pubblicato Viaggio nelle character skills, ma non possiamo escludere anche i fattori legati al contesto di provenienza. Dare per scontato che la formazione debba essere uguale per tutti significa non affrontare il tema delle diversità e quindi non dare a tutti le stesse opportunità di apprendimento e di crescita.

Passi avanti si stanno facendo. Ad esempio, in Piemonte la Fondazione per la Scuola con il progetto “Riconnessioni” si è occupata di fare investimenti cospicui per la digitalizzazione delle scuole e la conseguente formazione dei docenti e auspichiamo che tale progetto possa essere trasferito anche in altri contesti. Tuttavia questo anno ha messo in luce come ciò non basti: occorre lavorare per un’alfabetizzazione digitale del singolo ragazzo e della sua famiglia. Occorre ripartire da un’educazione a tutto campo.

Risulta quindi essere ancora più necessaria la creazione di luoghi in cui possa essere ricostruita una normalità di relazione e un senso di comunità, in cui si possa tentare di recuperare un divario tra le fasce sociali, fatto di strumentazione tecnica e forme nuove e diverse di carattere relazionale. Tutte da inventare, ma assolutamente urgenti.

È questa la sfida del progetto “Digital Thinking” su cui Piazza dei Mestieri sta lavorando, in collaborazione con Cesvi e Intesa San Paolo: favorire la consapevolezza e il protagonismo dei giovani, delle famiglie e degli anziani, affinché, nell’attuale contesto sociale e culturale, sappiano cogliere il digitale come uno strumento privilegiato, per comunicare sé, per crescere, per condividere e per confrontarsi.

Lo scopo del progetto è un’educazione intergenerazionale ad un uso intelligente degli strumenti digitali volto a prevenire le tante forme di dipendenza digitale quali, ad esempio, l’iper connessione e il cyberbullismo, aiutando le famiglie ad esercitare un’educazione e un controllo in un contesto ipertecnologico come quello attuale e, al contempo, favorendo per i più anziani un legame continuo, anche a distanza, con le persone care (fattore ancor più decisivo e critico in uno scenario pandemico e post-pandemico).

Occorrono dei luoghi, si diceva, in cui si possano rinsaldare i rapporti tra le categorie più minacciate dall’esclusione digitale: gli anziani (divario intergenerazionale), i disabili, gli immigrati (barriera linguistico-culturale) e in generale coloro che, essendo in possesso di bassi livelli di scolarizzazione, non sono in grado di utilizzare gli strumenti informatici (divario socio-culturale).

Tutto questo rende necessario e urgente attivare interventi formativi ed educativi per colmare il divario digitale nei giovani, nelle famiglie e negli anziani ed accrescere così le loro competenze informatiche, tecnologiche e digitali. E la scuola e i centri di formazione professionali devono e possono essere in prima linea, giocando la loro capacità educativa a tutto tondo e le loro autonomie, magari anche in estate.

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