Un recente studio della rivista Tuttoscuola aggiorna i numeri di un’emergenza che ormai non è più consentito ignorare, quella del precariato docente nella scuola italiana. Non si tratta di un problema nuovo, come nuove non ne sono le cause: che si possono ricondurre, come abbiamo già avuto modo di ricordare, all’effetto combinato di due vere e proprie forzature, logiche oltre che giuridiche. Da una parte, il diktat sindacale secondo cui ogni docente ha un diritto illimitato di scelta su tutti i posti disponibili in una provincia; dall’altra, la pretesa ormai irrealistica dell’amministrazione scolastica di effettuare centralmente le nomine di tutti gli insegnanti precari.
Si tratta di due rigidità entrambe irragionevoli di per sé, anche se ostinatamente aggrappate ad astratte motivazioni formali. Ma rese ancor più assurde oggi dai numeri in gioco: oltre 225mila precari su 900mila posti di docente. Un docente su quattro deve essere nominato ex novo ogni anno: e queste nomine devono procedere sequenzialmente, attraversando un collo di bottiglia unico in ogni provincia, che “lavora” un posto alla volta, in ordine di graduatoria.
Né basta: siccome i movimenti del personale di ruolo hanno la precedenza, prima occorre provvedere a sistemare quel 20% circa di titolari che muta sede ad ogni anno scolastico. Un calcolo prudenziale porta a stimare in un 40% minimo del totale la percentuale di coloro che si spostano ad ogni nuovo anno scolastico.
A gestire questo flusso imponente, governato da regole che sembrano scritte da Ionesco (con ordinanze di centinaia di articoli), siede immobile un’amministrazione che ha visto falcidiati negli anni i propri organici dalle politiche di taglio nella spesa pubblica: e che, in aggiunta, ha perso per motivi anagrafici e pensionistici proprio i funzionari più esperti. A pagare il conto sono gli studenti, soprattutto quelli che più avrebbero bisogno di continuità e di una scuola che funzioni a regime fin dal primo giorno.
Alcuni mesi fa avevamo già fatto un’analisi della situazione e formulato una proposta minimale, che almeno alleggerisse l’amministrazione dal carico delle nomine annuali, trasferendole alle scuole. Ovviamente, non se ne è fatto nulla ed oggi i numeri sono ancora più fuori controllo. È giunto ormai il momento di pensare ad un cambio strutturale delle logiche sottostanti al reperimento dei docenti. Se non si intaccano le prassi fino ad oggi seguite, è evidente che i numeri sopra richiamati continueranno a salire e che lo faranno con un andamento non lineare ma esponenziale, visto il numero delle variabili che si intrecciano ad ogni passaggio.
La prima mossa da fare è quella di trasferire in via permanente alle scuole il compito di nominare i supplenti annuali, cioè coloro che annualmente sono assunti fino al 30 giugno. Si tratta di poco meno di 70mila posti, su cui non possono essere assegnati titolari, dato che sono giuridicamente coperti da docenti di ruolo che svolgono altri compiti (comandi presso l’amministrazione, distacchi sindacali, mandati politici o amministrativi e simili).
Come avevamo già avuto modo di proporre, le scuole dovrebbero utilizzare per la chiamata le attuali graduatorie provinciali, facendo salve le aspettative degli interessati. L’unica differenza è che a nominare sarebbero tutte le scuole in parallelo, anziché un solo soggetto per ogni provincia: il che consentirebbe di esaurire le operazioni in una decina di giorni al massimo, dato che ogni scuola deve nominare di regola non più di 15-20 docenti.
Per essere realmente efficace, questa misura dovrebbe essere accompagnata da un’altra: i docenti sarebbero liberi di accettare le chiamate o di lasciarle cadere, scommettendo su una sede migliore. Ma, una volta accettata una proposta, non potrebbero più cambiare idea, a pena di decadenza. Solo così si può fermare il carosello iniziale delle nomine, che vede migliaia di docenti per provincia cambiare sede, magari più volte, nella ricerca continua di una sistemazione più gradita. È tempo di affermare senza complessi che i posti di insegnamento disponibili devono tornare ad essere una risorsa per gli studenti e le scuole e non per i singoli aspiranti.
Ma, posto che si trovasse il coraggio – che poi sarebbe semplice intelligenza organizzativa – per fare questo, si sarebbero coperti meno di un terzo dei posti vacanti: i quali, nel frattempo, per effetto dei pensionamenti, saranno lievitati almeno a 240mila per il 2023-2024.
Occorre allora fare un passo in più: intaccare l’enorme serbatoio dei posti privi di titolare, che l’amministrazione non riesce a coprire con il sistema dei concorsi gestiti centralmente. Con questi numeri (oltre 150mila) e con questi ritmi di crescita, non ci riuscirà mai. Anche qui occorre adottare una logica di sussidiarietà e chiamare le scuole ad essere parte della soluzione, anziché vittime del problema.
Si dirà: esiste il vincolo costituzionale del concorso per l’accesso ai pubblici impieghi. Ora, a parte il fatto che – nei decenni scorsi – tale vincolo è stato sistematicamente aggirato con i più vari espedienti ogni volta che si è ritenuto utile farlo, niente nella Costituzione o altrove vieta che ad espletare le procedure concorsuali possano essere le scuole. Basterebbe stabilire per legge che il concorso consiste non nella chiamata, ma nel superamento di un tirocinio guidato, magari biennale, per ridurre i margini di errore. Molto più probante – sia detto per inciso – di un reclutamento caotico basato su un singolo scritto e su un’ora di colloquio.
E quindi, ogni scuola chiamerebbe sui posti vacanti, sia quelli fino al 30 giugno che quelli fino al 31 agosto. Sui primi – che non possono avere titolare – chiamerebbe anno per anno; sui secondi chiamerebbe il primo anno e farebbe effettuare un tirocinio guidato da un tutor. Al termine del primo anno, ci sarebbe una valutazione interna che, se positiva, si concluderebbe con l’offerta del rinnovo del tirocinio per un altro anno. L’offerta dovrebbe essere vincolante per l’aspirante: nel senso che, se non l’accetta, dovrebbe ricominciare l’iter in altra scuola che gli offra un posto. Se accetta, al termine del secondo anno, previa nuova valutazione positiva, si vedrebbe offrire la stabilizzazione sul posto. Questo biennio prenderebbe il nome di concorso: e, se proprio si vuole essere tranquilli, il terzo anno sarebbe il periodo “di prova”.
Dopo tre anni, se un insegnante sa fare il suo lavoro, si vede. Si potrebbe pensare ad un ulteriore meccanismo di garanzia, che vincolasse la nomina all’impegno reciproco a prorogare per ulteriori due anni il rapporto scuola-insegnante. Così, vi sarebbero sufficienti garanzie che la scuola non conceda con troppa leggerezza la stabilizzazione, visto che poi il docente rimarrebbe per un totale di minimo cinque anni. Trascorsi i quali, acquisirebbe il diritto all’eventuale mobilità verso altre sedi, come tutti i titolari.
Un tale processo, che si potrebbe ulteriormente affinare, avrebbe il vantaggio di intaccare, da subito ed in modo significativo, il numero dei posti vacanti. Avrebbe anche il risultato di far crescere nei fatti l’autonomia delle scuole, senza timore di clientelismi, visto che la chiamata avverrebbe sempre su graduatorie provinciali. Alla scuola spetterebbe mettere alla prova l’idoneità (operativa e non teorica) degli aspiranti, assisterli con un tutor e fornire loro un incentivo a rimanere, se risultano funzionali ed utili al progetto di istituto. Nel peggiore dei casi, torneranno sul mercato dei precari: dal quale peraltro non si sarebbero mai mossi se non si adottasse uno strumento di questo tipo.
I primi a beneficiare di questo approccio sarebbero – insieme alle famiglie ed agli studenti – gli stessi precari, che potrebbero sperare di entrare in ruolo almeno cinque anni – e forse più – prima che con i meccanismi attuali. Parafrasando un celebre appello di un secolo e mezzo fa, essi, per questa via, non avrebbero da perdere altro che le loro catene, mentre avrebbero un mondo da guadagnare.
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