Una recente iniziativa della Commissione europea riporta all’attenzione la vecchia questione del precariato docente nel nostro Paese. Attenzione effimera, come l’esperienza insegna: perché il problema riemerge periodicamente sui media, di solito ad ogni inizio di anno scolastico, per poi sprofondare nell’oblio. E, soprattutto, nell’inerzia decisionale dei governi di ogni colore. Eppure, le proposte non sono mancate: ma tutte si sono arenate di fronte ad un problema dei costi da sostenere. Costi finanziari, ma non solo: sono soprattutto gli ostacoli politici che si ergono di fronte a qualunque ipotesi di intervento che incida sulle aspettative e gli interessi particolari di centinaia di migliaia di persone. E così, per non trovare il coraggio di affrontare quelle resistenze, si sacrifica quello che, a parole, tutti riconoscono essere uno dei beni supremi della comunità: il diritto ad una scuola che funzioni e ad un’istruzione di qualità per tutti.



Non ci sono ormai proposte che possano dirsi realmente nuove; ma forse una delle chiavi per depotenziare la questione potrebbe consistere nel rinunciare a trovare “la” soluzione globale, quella che risolva alla radice tutti i nodi, per accontentarsi di una serie di interventi di minore impatto, che però sinergicamente possano ridurre la portata del blocco.



La pronuncia della Commissione mette il dito su due criticità ben note: la durata eccessiva, anzi illimitata, della condizione precaria dei singoli; l’assenza di qualunque progressione economica di carriera lungo un percorso che ormai può durare anche dieci anni. Accanto a questi va ricordato il problema globale: cioè il numero eccessivo di coloro che, con situazioni e ragioni molto diverse, sono accomunati sotto la definizione di “precari”. Ove fossero veri i numeri che sono circolati nei giorni scorsi, si tratterebbe di 250mila persone: quasi un terzo dei posti di docente esistenti. Ma anche le stime, più prudenti o solo più timorose, di viale Trastevere parlano di almeno 160mila.



In realtà, quel numero è ingannevole. Accomuna coloro che svolgono “supplenze annuali”, cioè che ricoprono posti vacanti per tutto l’anno, di fatto o di diritto, e coloro che svolgono “supplenze brevi”, che possono essere di qualche mese o anche solo di qualche settimana. Magari ne mettono insieme diverse: e possono perfino arrivare a cumulare nell’anno i famosi 180 giorni complessivi per il riconoscimento dell’intera annualità. Nell’ordinamento attuale, il punteggio maturato, quello che lentissimamente avvicina alla conferma in ruolo, è lo stesso: ma è del tutto evidente che l’esperienza professionale che si matura in una supplenza annuale ha un peso ed un valore del tutto diverso. C’è la programmazione, ci sono le verifiche, ci sono le valutazioni periodiche e finali, c’è il lavoro in comune con un gruppo costante di colleghi, la continuità della presenza negli organi collegiali. E c’è, fondamentale, l’assunzione di responsabilità verso l’utenza.

Da questa ovvia considerazione potrebbe discendere una prima ipotesi di lavoro: che vengano considerati “precari” e che maturino il diritto ad una conferma in ruolo dopo tre anni solo coloro che svolgano supplenze annuali “piene”. Non si tratta di abbandonare al loro destino tutti gli altri, che sono fra la metà e i due terzi del totale: ma non si può far finta di credere che il loro contributo al funzionamento del sistema e la loro stessa maturazione professionale siano equivalenti. In un caso, si tratta di venire incontro, al tempo stesso, alle legittime aspirazioni lavorative dei singoli ed all’interesse della scuola di acquisire risorse esperte. Nell’altro, il problema attiene piuttosto all’ambito delle politiche sociali. E comunque si tratta di una risorsa di diverso valore e diversamente utile sotto il profilo collettivo.

Perché un tale approccio sia anche solo ipotizzabile, occorre uno strumento normativo e/o contrattuale che distingua, anche a livello di denominazione, le due condizioni. Sarebbe anche la condizione perché la Commissione non ci deferisca periodicamente alla Corte Europea per il numero abnorme dei portatori di interesse: che sono in realtà portatori di interessi molto diversi. Alcuni dei quali, di fatto, perfino in contrasto con l’interesse generale: altro che “buon andamento”.

Resta il fatto che le supplenze annuali sono comunque troppe: una parte di esse è riconducibile a maternità “a rischio” (sempre meno, peraltro); altre, relativamente poche, per fortuna, a gravi patologie. Molte sono invece quelle legate a “distacchi” ed “utilizzazioni” della più varia origine: sindacali, ma anche politiche, ma anche negli uffici dell’amministrazione o nei ministeri. È vero che alcune di queste assenze sono di durata imprevedibile e possono cessare in qualunque momento: ma è anche vero che, nella sostanza, finiscono nella maggior parte dei casi con l’essere un distacco permanente o di lunghissima durata. Sarebbe allora il caso di riflettere su una seconda ipotesi di intervento, non alternativa alla precedente.

(1 – continua)

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