In questi giorni i giornali milanesi, ma probabilmente anche di altre città, danno ampio spazio alle preiscrizioni per la scuola secondaria, dilungandosi in particolare su due punti: la prevalenza delle iscrizioni ai licei rispetto agli altri indirizzi della scuola secondaria di secondo grado, circa sessanta a quaranta, e la prevalenza della domanda sull’offerta, per cui alcuni licei milanesi, soprattutto scientifici, si trovano a fare i conti con l’esistenza di lunghe liste d’attesa, e quindi con la necessità di fissare dei criteri per l’iscrizione. Liquidato il criterio territoriale esistente fino a qualche anno fa, perché impedirebbe ai ragazzi “fuori zona” o addirittura “fuori città” di frequentare una scuola di loro scelta, la richiesta dominante è quella di aprire nuove sezioni nelle scuole sovraffollate.



Questo mi lascia molto, molto perplessa, per due motivi. Il primo è che ancora una volta si accetterebbe l’idea che esistono scuole buone e scuole cattive, o se si preferisce meno performanti, e l’equità consisterebbe nel fatto che i ragazzi hanno la medesima probabilità di entrare in una scuola “buona” indipendentemente dalle loro caratteristiche di classe, genere o etnia, mentre io sostengo con forza che l’equità consiste nel migliorare le scuole “cattive” (visto che la soluzione di chiuderle, se sono statali, non è praticabile), in modo che nessuno sia costretto a frequentarle. Il secondo è che le dimensioni della scuola sono uno dei fattori che più incide sulla qualità degli apprendimenti, mentre si tende a pensare che siano piuttosto le dimensioni della classe, le famose “classi pollaio”. Lo prova un numero rilevante di ricerche ed esperienze: cito solo la California, dove a partire dagli anni Novanta furono fatti massicci investimenti per ridurre il numero di alunni per classe, arrivando poi a concludere che quel che importava era invece il numero di classi per scuola: troppe classi ponevano problemi di governo, di relazioni, di progettazione didattica che abbattevano la qualità della scuola.



Quanto all’equità, non dimentichiamo che è già limitata dal fatto che chi sceglie una scuola paritaria deve pagarsela; mi chiedo però se questa non possa essere l’occasione per introdurre la possibilità per chi sceglie una scuola secondaria superiore paritaria (e rischierebbe di non trovare posto nel sistema statale) di fruire di un bonus che copra almeno in parte la retta, con un limitato aggravio di costo per lo Stato. Nel 2018, secondo il rapporto Ocse 2020, il costo per lo Stato di uno studente nella scuola secondaria statale di secondo grado era di 10.574 dollari (pari, al cambio di oggi, a 8.757 euro): l’ampliamento delle scuole che non hanno abbastanza posti, in apparenza la soluzione più semplice, contempla un costo aggiuntivo per i locali, i docenti, le attrezzature, costo che non coincide con il costo pro capite moltiplicato per il numero di alunni, è ovvio, ma non è nemmeno irrilevante, e può essere stimato e trasformato in un buono scuola per chi sceglie una scuola paritaria. Uno dei – pochissimi – effetti postivi della pandemia sembra essere la consapevolezza che le scuole non statali svolgono a tutti gli effetti un servizio pubblico, e riconoscerlo con un finanziamento, come del resto previsto dalla legge 62/2000, in questo momento solleverebbe probabilmente meno resistenze ideologiche.



Quanto al secondo punto, come si spiega la prevalenza dei licei sugli istituti tecnici e professionali, in una situazione in cui, pur con la disoccupazione in crescita verticale, le imprese non riescono a trovare un numero consistente di giovani con profili tecnici? I motivi sono molti, e di diversa origine, e aggiungo qualche ulteriore considerazione a quelle di Tiziana Pedrizzi già apparse sul Sussidiario. Tanto per cominciare, è diffusa l’idea che i licei forniscano una formazione generale migliore, mentre gli istituti tecnici e ancor più quelli professionali hanno solo un taglio operativo, cosa vera quanto alla differenza (operativo versus accademico), ma non quanto alla qualità, a meno che non si sostenga che le competenze teoriche sono “superiori” a quelle applicative, idea da tempo in disuso per gli esperti, ma a quanto pare non per le famiglie.

Il secondo motivo dipende in un certo senso dal primo, ed è l’idea che i ragazzi che frequentano i licei provengano da un ambiente più qualificato, abbiano storie personali e scolastiche migliori, e anche gli insegnanti siano più qualificati. Ora, è evidente che se gli insegnanti continuano a fare un orientamento basato sull’assunto “bravo: liceo; discreto: istituto tecnico; mediocre: istituto professionale; caso disperato: formazione professionale”, la popolazione dei diversi indirizzi resterà diversificata anche socialmente, per il fin troppo noto rapporto fra riuscita scolastica e appartenenza sociale, in parte attenuato, ma non certo soppresso, e il comportamento più logico per le famiglie è di scegliere per i figli la scuola che considerano migliore, anche indipendentemente dai loro desideri e dalle loro attitudini, costringendoli talvolta ad affrontare percorsi di studio per cui non sono portati, con danni gravi per la loro autostima e per il loro futuro. Infine, e questo è un problema che la scuola da sola non può risolvere, la prevalenza dei licei è maggiore al Sud e nelle isole, dove il sistema delle imprese è più debole, e quindi le famiglie preferiscono far studiare i figli più a lungo, nei licei prima e nell’università poi, sperando in un’occupazione che però non è certo garantita, soprattutto per le lauree più diffuse in quelle stesse zone, cioè quelle giuridiche e socio-umanistiche.

Che fare, allora? Sul medio periodo, migliorare l’orientamento e reintrodurre forme di alternanza, o quantomeno potenziare i Pcto, che sia pure immiseriti e marginalizzati consentono pur sempre di sperimentare forme diverse di apprendimento, e introdurre esperienze di alternanza anche nella formazione permanente dei docenti; sul lungo periodo, estendere queste esperienze alla formazione iniziale e incominciare ad agire sulla cultura della gente diffondendo buone pratiche di formazione tecnica attuate nelle scuole o nelle imprese, dove si potrebbero diffondere le cosiddette “accademie aziendali” oggi rare, ma che hanno conosciuto in passato notevoli successi.

E a breve, che cosa si può fare per ridurre l’eccesso di richieste in alcune scuole? Non è facile indicare delle iniziative risolutive, anche se tentativamente ne vedo almeno cinque:

1. dal momento che quasi un abbandono su dieci è dovuto ad una scelta sbagliata, agevolare la “riconversione” delle scelte consentendo di cambiare nel corso di tutto il primo anno, con l’aiuto di docenti orientatori e l’integrazione di alcuni moduli;

2. prevedere l’erogazione di bonus per le famiglie che scelgono scuole paritarie, con il duplice risultato di tutelare il diritto alla scelta e di allargare la disponibilità di posti;

3. costruire una banca dati agevole da consultare che indichi con chiarezza la disponibilità di posti nelle scuole, e fornisca informazioni anche sui trasporti e i programmi;

4. migliorare la comunicazione delle scuole più periferiche, ed ampliare l’offerta formativa per renderle più desiderabili (maggior numero di lingue straniere, più ore di informatica, attività sportive o artistiche nel tempo libero), seguendo l’esempio della Francia;

5. destinare alle scuole più periferiche gli insegnanti più esperti, su loro richiesta, prevedendo un’integrazione dello stipendio, o un maggiore peso del tempo passato in queste scuole.

Ritengo che la regione Lombardia, o anche la città metropolitana di Milano, potrebbero avviare un’analisi sui costi e i tempi di queste iniziative, o anche di altre formulate da persone più creative o più esperte di me, in modo da arrivare preparati al prossimo anno, o magari a poter attuare da subito qualche misura correttiva. Non dovrebbe essere impossibile: nihil difficile volenti, dicevano i latini, che non avevano neanche fatto il liceo classico…

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