Ora che di nuovo le scuole sono quasi tutte chiuse, causa Covid, e tali resteranno fino alla Pasqua, se non oltre, emergono con ancora più evidenza rispetto al passato i due pilastri che fanno della scuola, appunto, l’elemento costitutivo di un popolo.
In primo luogo, come usano dire i ragazzi (vale come categoria per i più grandi, ma come percezione vale non meno per i più piccoli): la socialità. In secondo luogo, la scuola è apertura al sapere attraverso l’insegnamento. Socialità e insegnamento.
Riflettiamoci un attimo. La socialità dice che l’uomo è fatto per non stare solo. E l’esigenza di socialità significa che nel suo contrario, la solitudine, l’uomo ci muore. La socialità, tuttavia, non è semplice intruppamento. Come un fiume essa nasce da una sorgente che è il bisogno umano e tende ad uno scopo, cioè alla costruzione di un’interiorità ricca. Ognuno di noi è diventato quello che è anche per gli amici che ha avuto (o non avuto) durante l’età della maggiore esperienza di socialità, quella della scuola appunto. Tanto più è cresciuto, quanto più quella socialità è stata un aiuto alla scoperta dello scopo dell’esistenza, e non solamente massificazione. La socialità è vera se è educativa, insomma. Non politicamente, ma esistenzialmente.
Fin qui la socialità. Il secondo pilastro della scuola è l’insegnamento. La grande lezione che viene dall’insegnamento è che per vivere si ha bisogno di segni. Non si nasce “imparati”. L’assenza di scuola in questi mesi rende più evidente che il fattore insegnamento necessita di alcune condizioni. La prima è che ci sia un adulto, chiamiamolo “insegnante”, che apprende sempre qualcosa di nuovo nel momento in cui insegna. Infatti l’insegnamento è attraverso qualcosa, un brano della realtà che viene continuamente ri-significato dalla visione del tutto che l’insegnante ha maturato. La seconda condizione è il gusto dell’apprendimento. Non c’è insegnamento se non c’è apprendimento. Ma perché ci sia gusto nell’apprendere, occorre che la realtà non sia mai data per scontata dall’insegnante che coltiva la propria materia. Insegnare è sicuramente un’arte oltre che una professione. E la Dad (didattica a distanza) lo ha drammaticamente rilevato. E questo, in breve, è l’insegnamento.
Cosa succede quando la scuola chiude? Non dovrebbe, se il Paese fosse sufficientemente attrezzato per impedire i contagi dentro le aule o in prossimità. Ma ancora non siamo a questo punto. Perciò chiudiamo. Ne risente la socialità e ne risente l’insegnamento. Ma non il bisogno di scuola. Su questo desiderio degli alunni bisognerebbe costruire. Desiderio di essere scomodati e desiderio di essere sorpresi da qualcuno che continua a guardarti.
In questo senso, se sono comprensibili (fino a un certo punto) le prime scelte del nuovo ministro Bianchi, dopo che, come responsabile di una commissione del precedente governo, aveva indicato i criteri per tornare a scuola in presenza, appaiono ancora tutte da interpretare le parole relative ad un prolungamento della didattica nei mesi estivi. Si è detto di una didattica leggera, di scuole-laboratorio, di attività all’aperto, ecc. Tutto bene, sì, anche perché esperienze di questo tipo (chiamiamole di “scuola attiva”) non mancano e anzi costituiscono un patrimonio di cultura scolastica interessante.
Non è tanto da riconquistare la disponibilità dei ragazzi a “fare” qualcosa, tuttavia. Da ricostruire semmai è la loro fiducia in un mondo di adulti che li prenda sul serio. Se si aprono spazi e occasioni, non li si riempia già di parole d’ordine precostituite, ma si ricominci dalle fondamenta di cui abbiamo detto. Socialità e insegnamento possono variare come “forma”, ma se c’è una cosa che temono sono i surrogati.
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