Seconda e ultima parte (leggi qui la prima parte) dell’intervento dell’autore a conclusione del convegno “Il rischio educativo nella scuola dell’emergenza”, organizzato dall’Associazione culturale Il Rischio Educativo

2. Insegnamento e didattica a a distanza

Il fenomeno nuovo che il mondo della scuola e dell’università hanno dovuto affrontare, quale conseguenza della pandemia e dell’isolamento sociale, è stata la didattica a distanza: insegnare non in un luogo fisico ma attraverso le Nuove tecnologie della comunicazione (Ict). Ciò che da molte parti – agenzie, centri di ricerca, grandi produttori di tecnologia informatica – si era cercato di fare negli ultimi vent’anni, senza grandi risultati, in poche settimane è stato realizzato su vasta scala e con una partecipazione numericamente rilevante. Senza grande preparazione, gli insegnanti e gli studenti della scuola italiana si sono buttati, bruciando i tempi, nella didattica a distanza, sia nella forma diretta della lezione fatta dal vivo sia nella forma di lezioni registrate o di video conferenze.



In ogni tipo di scuola, dalle superiori alla scuola dell’infanzia, sono stati approntati percorsi di formazione a distanza, talvolta con risultati non disprezzabili, e ciascuno ha potuto constatare i vantaggi e i limiti di questa nuova forma di didattica. In alcuni casi si è anche provveduto a fornire gli strumenti essenziali e le nozioni di base della comunicazione online, aiutando molti insegnanti in un’attività che, da soli, non sarebbero stati probabilmente in grado di svolgere.



Sin dall’inizio abbiamo preso le distanze da due principali posizioni contrapposte: quella “attendista” di coloro che invitavano ad aspettare che la tempesta passasse, per tornare alle modalità e agli strumenti consueti – e, più in generale, a un tipo di scuola “tradizionale” – e quella “innovativa” di coloro che, cogliendo l’occasione, proponevano un radicale passaggio alla scuola digitale, con una rivoluzione dei metodi di insegnamento, dei contenuti di insegnamento e dello stesso ambiente scolastico (suddivisione delle classi, strutturazione delle aule, disposizione delle postazioni). La nostra posizione è stata quella di valutare criticamente la possibilità dell’insegnamento a distanza, richiesto dalle circostanze e divenuto necessario, tenendo però fermi alcuni principi educativi e formativi, riassunti nella formula “educare insegnando”, vale a dire: il valore educativo delle materie scolastiche e dell’istruzione, da una parte, e la necessità della verifica personale dei contenuti dell’insegnamento da parte di chi apprende.



Questi due principi sono stati sempre tenuti presente nell’attivazione dei vari percorsi di didattica a distanza, con la disponibilità ad acquisire nuovi elementi per una valutazione positiva di nuove forme di insegnamento e con il proposito di sottoporre ad analisi critica ogni innovazione che fosse necessario o anche auspicabile introdurre nell’insegnamento scolastico.

Dopo questi mesi possiamo riaffermare che l’insegnamento in presenza rimane il fulcro dell’insegnamento scolastico: esso costituisce la modalità e la condizione normale dell’attività scolastica e pertanto deve essere realizzato, appena le condizioni lo permettano. Ma si è anche imparato che la modalità “in presenza” è molto più ricca e piena di significati che l’essere insieme in un medesimo luogo e in un medesimo tempo. Il termine “presenza” suppone una relazione, vale a dire l’essere presenti a qualcuno, in un rapporto di reciprocità che costruisce la solidità di un rapporto. Nella scuola questa relazione è molteplice – dal rapporto con i compagni a quella con l’ambiente fisico e intellettuale, dal rapporto con gli strumenti dello studio a quello con il contesto civile e cittadino in cui la scuola è inserita –, ma principalmente è caratterizzata dal rapporto con un maestro.

Senza rinverdire esperienze del passato, anche di qualche secolo fa, si può però convenire che il cuore della scuola non sono i programmi o le pratiche burocratiche, di qualsiasi genere, ma è sostanzialmente il rapporto che gli allievi hanno con un maestro, che decidono di seguire perché convinti che possono da lui imparare ciò che altrimenti resterebbe ignoto. Una scuola priva di maestri è una scuola vuota e anonima, dove l’interesse per lo studio facilmente degrada e si perde in pratiche nozionistiche e puramente mnemoniche. Tant’è che, così come si deve garantire il diritto di accesso alla scuola a ogni bambino e giovane, altrettanto si dovrebbe garantire il diritto di “uscita” da una scuola che non insegna più nulla e che annoia soltanto, ossia il diritto di scegliere la scuola che risponde ai bisogni di formazione e di conoscenza.

Essere in presenza riporta quindi all’essere in relazione, e principalmente alla relazione con un maestro. E tale maestro non è “l’insegnante meccanico” del racconto di Asimov, ma un essere umano in carne e ossa, che, insegnando, comunica se stesso, stabilisce un rapporto umano, non si accontenta di trasmettere informazioni, ma coltiva il sapere.

Certo, le relazioni sono di vario tipo, dirette e indirette, attuali o distribuite nel tempo, come ad esempio documentano gli epistolari di una volta. In tal senso, anche le nuove tecnologie della comunicazione possono consentire di realizzare una relazione e rappresentare forme di istruzione che non alterano l’insegnamento, ma lo coadiuvano e possono addirittura offrire delle opportunità per realizzarlo meglio, opportunità che sono da cogliere e valorizzare. Ad esempio consentono di mettere in contatto una classe o un’intera scuola con centri di ricerca lontani o con studiosi che in altro modo sarebbe impossibile incontrare e ascoltare. Oppure permettono di concordare una didattica comune fra scuole lontane, ma in rapporto tra di loro, così da valorizzare il meglio che ciascuna di esse può offrire – una lezione su un determinato argomento, un esperimento, uno studio specifico – facendolo diventare una ricchezza per tutti. Il Progetto Ired-video, che è nato da qualche settimana e diventerà operativo nel prossimo anno scolastico, si colloca in questa prospettiva: raccogliere ciò che di buono esiste in ciascuna scuola per condividerlo con altre scuole, attraverso video lezioni o video conferenze, in una programmazione didattica concordata.

La scuola in presenza è, dunque, una relazione, nelle varie modalità in cui essa si può realizzare e sviluppare. E tale relazione, o complesso di relazioni, ha come suo fulcro la relazione con un maestro. Tuttavia, anche questa relazione, per quanto importante e fondamentale, non è il termine ultimo né dell’istruzione né dell’educazione. Nella relazione con un maestro non si impara ciò che egli pensa e dice, ma ciò che, attraverso ciò che pensa e dice, viene fatto conoscere della realtà. Il termine ultimo della relazione educativa è sempre la realtà, per quanto il maestro possa essere geniale e affascinante. Perciò il vero maestro non disdegna, anzi auspica, di essere superato dai suoi allievi, tende a scomparire, nel tempo, o ad affiancare l’alunno secondo quella splendida immagine che si trova nel Rischio educativo, ove, al raggiungimento della maturità, colui che è stato davanti, si pone al fianco dell’alunno, nel cammino di adulti in cui la vita è affrontata e vissuta costruttivamente.

È la realtà ciò cui si introduce. Il maestro è occasione per la comprensione della realtà, per il rapporto con la realtà. Il genio educativo è proprio riconoscere l’essere umano nella sua natura, cioè che l’essere umano non dipende da chi lo educa ma ha in sé una natura, cioè criteri, esigenze, capacità che lo possono rendere capaci di un rapporto costruttivo con se stesso e con le cose; è un elemento da tener presente nella didattica nuova che si vuole fare. E la didattica nuova non è costruire il ragazzo ma dar l’occasione perché il ragazzo sviluppi quella capacità che egli possiede potenzialmente. È appunto la grande idea dei medievali che parlavano di inventio e di disciplina, cioè della scoperta e dell’insegnamento, come delle due strade per giungere al sapere, dicendo che la prima è possibile solo per pochissimi, mentre per la maggior parte la strada è quella dell’insegnamento, e perciò si devono fare le scuole, per portare tutti a comprendere le cose. Ma questa seconda strada, la scuola, deve ricalcare il percorso che uno da solo potrebbe fare, se fosse dotato delle capacità, delle doti e dei mezzi per poterlo fare, in base a quelle evidenze e principii che a ogni essere umano sono dati, non dall’esterno, ma dalla sua stessa natura.

Che cosa hanno imparato: la crescita

La domanda emersa furtivamente all’inizio del periodo di isolamento è diventata sempre più insistente, man mano che i giorni passavano: “che cosa impareranno i nostri ragazzi in questi mesi?” Addirittura, in alcuni momenti, si è chiesto: “Impareranno qualche cosa?” Ciò ha portato ad avere particolare attenzione verso l’obiettivo primario della scuola, che non è esclusivamente il suo buon funzionamento (efficienza) né la buona condizione e realizzazione dei suoi insegnanti, ma la crescita degli alunni. Una scuola va bene se coloro che la frequentano, come studenti, imparano e crescono. Usiamo il termine “crescita” non come è trattato nelle scienze economiche, ma in senso pedagogico, come incremento di essere, di personalità, di doti e qualità individuali, fenomeno distinto dallo sviluppo scolastico, che può essere identificato, ad esempio, con il raggiungimento di determinati obiettivi o aumento del numero di alunni o attrattiva sociale.

L’attenzione alla crescita degli alunni è la preoccupazione che una scuola, ed ogni buon educatore, deve primariamente coltivare ed è anche motivo delle domande che l’adulto deve continuamente farsi nel rapporto con i giovani: quanto serve loro quel che viene proposto? Quanto crescono seguendo i nostri insegnamenti? Quanto potenziano le loro capacità e disposizioni individuali? Sono domande che possono anche mettere gli adulti con le spalle al muro, ma che sarebbe un errore non tenere vive, come fonte di confronto e di verifica dell’operare nella scuola.

Il fatto che questa domande siano state frequentemente riproposte in questi mesi è certamente un buon segno che quel che si sta facendo va nella giusta direzione e che l’impegno profuso mira all’essenziale, senza perdersi in questioni secondarie.

Non è difficile vedere il risvolto sociale, economico e politico di questa preoccupazione. Un paese cresce se crescono i suoi membri, non solo se i suoi membri si conservano al livello dei loro predecessori, o addirittura se regrediscono. Diversamente dalla crescita economica – per la quale vi sono indici di misurazione quantitativa –, la crescita umana è difficilmente misurabile, sia per la maggior complessità sia per l’incidenza di fattori non quantificabili. Tuttavia, non è difficile prevedere che un prolungato tempo di assenza educativa e formativa potrebbe produrre effetti catastrofici, pari o persino superiori a quelli che possono derivare dal blocco della produzione industriale, del lavoro e del commercio. La perdita di mesi, di un anno o più di scuola, può incidere negativamente su un’intera generazione, provocando un vuoto culturale, psicologico, umano che, se non venisse prontamente e fortemente riempito, potrebbe comportare conseguenze gravissime sul piano dei comportamenti individuali e della vita sociale.

Il tema della crescita è un tema importantissimo, anche politicamente. E quello degli insegnanti e delle scuole è di un valore inestimabile per l’intera società.

È perciò giusta la domanda: “che cosa hanno imparato i nostri allievi?”, ossia come sono cresciuti e crescono nella scuola che è loro proposta.

Di qui, alcune considerazioni conclusive.

L’apprendimento non è solo l’assimilazione di nozioni, ma è far propria la conoscenza della realtà nella sua complessità e varietà di elementi, in una sintesi personale che si produce nel tempo e attraverso specifiche tappe. Di qui allora una delle linee è quella di stabilire dei percorsi formativi, non solo coerenti con le indicazioni nazionali dell’istruzione, ma anche conformi all’intenzionalità educativa della scuola. Per fare ciò occorre una certa dose di creatività, come quella dimostrata durante l’emergenza, e di rigore, nel giustificare e rendere controllabili i cambiamenti che vengono introdotti. Nei confronti degli allievi si dovrà esercitare – soprattutto se le condizioni straordinarie createsi con la pandemia dovessero protrarsi nel tempo – una valutazione di tipo formativo, non solo sommativo, in modo tale che il percorso proposto sia compiuto con responsabilità e partecipazione, sia condiviso personalmente e gli eventuali errori o ritardi siano corretti e colmati in modo consapevole e critico.

Ciò non comporta l’abolizione del voto, che anzi può riacquistare valore come seria considerazione dell’impegno e del lavoro dell’alunno, soprattutto in una probabile situazione di didattica mista (in presenza e online) o nell’inaugurabile proseguimento della didattica a distanza – molti studenti hanno richiesto, durante l’emergenza, che il loro studio e le loro attività fossero valutate con chiarezza, come riscontro e prova dell’importanza del loro impegno –; piuttosto significa completare la valutazione dei risultati con la valutazione dei mezzi, delle capacità e della correzione che l’allievo deve attuare e impiegare per conseguire gli obiettivi prefissati.

Una seconda considerazione riguarda il curriculum scolastico, divenuto di particolare importanza dopo l’abolizione dei “programmi scolastici” e l’avvento degli obiettivi e standard formativi. La definizione di un curriculum è opera non facile, che comporta l’impiego di varie risorse e competenze e che deve essere compiuta collegialmente, nel rispetto della peculiarità delle differenti materie. Il curriculum costituisce un percorso intellettuale di istruzione e comprende gli elementi fondamentali della “cultura di base” che la scuola, nei suoi vari livelli, deve offrire e i contenuti e i metodi delle varie discipline. Per gli insegnanti la costruzione del curriculum segna l’uscita da una logica di dipendenza burocratica – esecuzione di direttive imposte dall’alto – per passare a scelte meditate e deliberate che promuovano programmi di studio coerenti con le esigenze educative e le finalità culturali della scuola. Anche l’orario scolastico e la partizione degli insegnamenti potrebbe, sotto questo punto di vista, essere riconsiderato e subire modifiche, nel rispetto della normativa nazionale.

Una terza osservazione riguarda la ripresa del tema della personalizzazione, che negli ultimi anni è stato messo da parte o utilizzato solo per particolari situazioni di disabilità, ma che, di recente, è stato riproposto come metodo qualificante della scuola paritaria e, in particolare, della scuola cattolica. Con personalizzazione non si intende l’individualizzazione degli apprendimenti né, come anni fa si era obiettato, il favorire alcuni alunni, maggiormente dotati, rispetto ad altri, creando così divari ingiusti e inaccettabili – un problema che, tra l’altro, la pandemia ha risollevato e che la scuola italiana deve cercare in ogni modo di prevenire e risolvere –, bensì la corretta considerazione delle capacità di ogni allievo e del suo sviluppo intellettuale e umano, come progressiva comprensione del senso delle cose attraverso quella sintesi personale che ne contraddistingue la visione del mondo e il comportamento.

Infine, quarta considerazione, il periodo dell’emergenza sanitaria ha posto in luce il ruolo fondamentale degli insegnanti. Se la scuola italiana ha continuato a funzionare negli scorsi mesi è stato perché gli insegnanti l’hanno fatta andare avanti, senza aspettarsi disposizioni dall’alto, spesso in ritardo e confuse. Ciò riporta all’antico principio che “la scuola si fa sulla scuola” e che le migliori riforme sono fatte da coloro che la scuola la conoscono, la vivono e dedicano le loro capacità ed energie a renderla “buona” e utile ai giovani e all’intera società.

L’autonomia della scuola, tanto invocata e proclamata, ha trovato nell’esperienza degli scorsi mesi una grande occasione per essere riscoperta, praticata e incrementata. In alcuni casi, a dispetto delle circostanze avverse, l’offerta formativa è stata, grazie all’impegno di insegnanti preparati e ben disposti, addirittura aumentata e arricchita. La mossa e l’impegno che molti insegnanti e molte scuole hanno avuto nei mesi in cui il Covid-19 ha costretto tutti all’isolamento e a cambiare i propri stili di vita, è un insegnamento da non perdere, nel futuro prossimo, ed è una ben precisa indicazione di come, a partire dalla prima campanella del prossimo anno scolastico, le scuole potranno ripartire.

(2 – fine)