Nel 2011 l’allora senatore (oggi ministro dell’Istruzione) Valditara già chiedeva di iniziare a raccogliere dati precisi sul burnout degli insegnanti. Fino ad arrivare a un paio di mesi fa, quando Vittorio Lodolo D’Oria, medico ed esperto di stress lavoro correlato, ha pubblicato uno studio su LabParlamento. Vi si evidenzia che negli ultimi dieci anni (2014-2023) si sono verificati cento suicidi tra insegnanti: praticamente uno al mese, escludendo luglio e agosto. Scrive D’Oria: “La responsabilità di questa situazione è dovuta alla professione e non al sistema scolastico o al livello di insegnamento in cui si esercita”.



Decine di articoli negli ultimi mesi sono usciti su tutti i maggiori quotidiani (l’ultimo di qualche giorno fa su Repubblica) riguardo a questo dramma.

Quali le cause? Tutti gli interventi sul tema riportano motivazioni reali e sotto gli occhi di tutti: usura psicofisica, alunni sempre più indisciplinati da gestire, genitori aggressivi, disinteresse da parte dei ragazzi, conflitti nei luoghi di lavoro, frustrazione e mancanza di riconoscimento sociale, crollo dell’autorità della figura del docente.



Certamente, di fronte a questo scenario, una prima notazione salta agli occhi: i cospicui finanziamenti arrivati alle scuole italiane grazie al PNRR non possono essere usati esclusivamente per l’innovazione tecnologica: non è sufficiente l’adeguamento digitale e tecnico per affrontare i gravi problemi che alunni e docenti soffrono nelle nostre aule (spesso “classi pollaio”). Disagi e malattie del vivere, più che altro.

Ma un’altra credo sia la questione prioritaria. E sta proprio nella condizione di “adulto” che il professore vive. Ogni situazione – anche la più difficile – non è mai la causa prima della “sconfitta” del docente; sicuramente invece è la circostanza difficile che fa venire a galla e mette in luce una fragilità preesistente dell’adulto. La difficoltà proprio di essere adulti.



Troppo spesso noi insegnanti pensiamo che il punto di partenza nel rapporto con gli studenti (ma anche con i genitori o i colleghi) sia nella domanda: “cosa devo fare?”. Trovare la strategia o il modo di comportarsi “giusto” per stare in piedi di fronte alla classe, per mantenere la disciplina, per essere simpatici e allo stesso tempo rispettati in aula. Purtroppo tutti i metodi piano piano falliscono. Perché i ragazzi cambiano e ogni anno sorgono problemi di nuova natura e tipologia. Perché le situazioni non sono mai le stesse (anche dopo anni di insegnamento non si finisce mai di essere stupiti dalla diversità di casi e drammi che la vita ti mette davanti).

Al contrario, il vero punto di partenza è nella domanda: “Io chi sono? Che cosa sono?”. Scriveva Pasolini nelle Lettere luterane: “Se qualcuno… ti avesse educato, non potrebbe averlo fatto che col suo essere, non col suo parlare”. Ecco, la questione è se la nostra vita “sta”. Se la nostra consistenza di uomini e donne è dovuta al successo o alla riuscita delle nostre performances lavorative, magari alle situazioni ambientali fortunate in cui ci troviamo a lavorare; oppure se la nostra vita poggia su qualcosa di saldo, vive una fecondità e un significato che vanno oltre la positività o la negatività degli accadimenti esterni.

Tutti i giorni i ragazzi mettono alla prova la nostra saldezza, cioè le nostre ipotesi di vita, ciò a cui facciamo riferimento per dare significato alle nostre esistenze. Un po’ come l’estate scorsa è accaduto ad Alain Elkann sul treno per Foggia. Lo scrittore aveva incontrato dei ragazzi maleducati e bulli. Scrisse su Repubblica: “Io mi sono domandato se era il caso di iniziare a parlare col mio vicino, ma non l’ho fatto. Lui era la maggioranza, uno nessuno centomila, io ero inesistente: qualcuno che usava carta e penna, che leggeva giornali in inglese e poi un libro in francese con la giacca e i pantaloni lunghi. Per loro chi era costui? Un signore con i capelli bianchi, una sorta di marziano che veniva da un altro mondo e che non li interessava. Pensavano ai fatti loro, parlavano forte, dicevano parolacce, si muovevano in continuazione, ma nessuno degli altri passeggeri diceva nulla… Arrivando a Foggia, mi sono alzato, ho preso la mia cartella. Nessuno mi ha salutato, forse perché non mi vedevano e io non li ho salutati perché mi avevano dato fastidio quei giovani ‘lanzichenecchi’ senza nome”.

Di fronte a quei giovani, l’intellettuale, il colto, l’esperto, che cosa sa dire? Niente. L’unica risposta è la fuga dal problema. Che cosa aveva Elkann nel suo poderoso bagaglio esistenziale ed esperienziale da offrire a quei ragazzi? Nulla. Crolla tutto il suo essere di fronte ai “lanzichenecchi”. Come, spesso, crolla la speranza di tanti prof che non riescono più a sostenere la resistenza radicale dei propri alunni. Ma dopo che uno non sa più che strategia usare, non sa più cosa cercare, cosa gli resta? Risponde Julián Carrón in un suo saggio: “Si comporta come gli studenti: subisce le ore di lezione, con la pesantezza nel cuore”. E dove porti tale scetticismo lo vediamo tutti i giorni sotto i nostri occhi. Come dice il poeta francese Péguy: “La crisi dell’insegnamento non è una crisi dell’insegnamento, è crisi di vita”.

È affascinante ed estremamente interessante proprio per questa impasse che fa parte di tutti coloro che vivono la scuola, che quest’anno un gruppo di insegnanti di ogni ordine e grado abbia rilanciato un lavoro e un confronto serrato su un testo del 1977 di don Luigi Giussani, Agli educatori, tuttora assolutamente attuale. Moltissimi in presenza a Milano, ancora di più collegati da tutta Italia. Più di mille già al primo incontro. Ci si pongono, senza sconti, le domande fondamentali: quale senso di vita abbiamo da proporre ai ragazzi? Che cosa noi stessi riteniamo significativo e valevole da trasmettere per le nostre giornate quotidiane? Che ipotesi di significato stiamo verificando per andare avanti? Il cristianesimo o altre tradizioni possono ancora oggi offrirci una possibilità di costruire? Ci sono esempi di speranza intorno a noi da poter guardare?

Tale luogo di interrogativi aperti, aiuto e di amicizia, guidato da due giovani docenti, Matteo Severgnini e Francesco Fadigati, si ripropone ancora in tante assemblee e scuole di tutta la penisola. La sfida continua.

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