Nel suo recente articolo sul Sussidiario l’amico Nicola Incampo ricostruisce il critico stato dell’arte a riguardo del futuro concorso per gli insegnanti di religione (IdR). È da 18 anni che molti IdR, soprattutto i più anziani di età e servizio, attendono di stabilizzare giuridicamente la loro posizione. Non so se c’è, in Italia, qualche altra categoria di docenti che sia stata trattata dallo Stato peggio di così, lasciata a logorarsi nella precarietà e in balìa delle promesse dei vari ministri dell’Istruzione e della maggior parte delle organizzazioni sindacali.
E pensare che nel 2004, quando in molti superammo il primo e finora unico concorso accedendo al ruolo, sembrava a tanti di noi di essere ad una svolta. Non che ci facessimo soverchie illusioni, ma il concorso del 2004, oltre che dare l’opportunità a tutti coloro che intendevano continuare ad insegnare religione seriamente di superare la sconfortante condizione di incertezza lavorativa, appariva come il riconoscimento dell’insostituibile ruolo culturale e educativo dell’insegnamento di religione cattolica (IRC) nel sistema scolastico pubblico italiano, così come definito e proclamato nella revisione dell’intesa tra Chiesa e Stato del 1984.
Ad accreditare questa sensazione il fatto che i partecipanti vennero giustamente esaminati non sui contenuti propri dell’IRC, acquisiti nei corsi teologici superiori ecclesiastici a vari livelli, ma solo per la parte normativa e didattica. Quindi, il concorso aveva unicamente lo scopo di immettere in ruolo gli IdR già abilitati dall’idoneità conferita loro dall’Ordinario diocesano di appartenenza, accertando le loro conoscenze e competenze “scolastiche”.
A distanza di quasi vent’anni si può dire che, alla prova dei fatti, la nostra era un’ingenua illusione. Chiamato a far parte dal 2017 della commissione ministeriale con il compito di preparare il testo del bando del “prossimo” concorso, Incampo nel suo articolo testimonia come il tentativo in atto da parte di chi è sempre stato ostile alla presenza della IRC nella scuola pubblica è quello di rimettere in discussione proprio il principio concordatario per cui è l’autorità ecclesiastica competente a stabilire chi può o meno insegnare religione nella scuola, rompendo di fatto il Patto del 1984 per via amministrativa e non parlamentare e legislativa. Se passasse questo progetto saremmo di fronte all’ennesima grave mossa di quell’ormai evidente strategia di erosione della presenza dell’IRC nella scuola pubblica a mezzo di provvedimenti amministrativi e di sentenze di questo o quel Tar che da tempo stanno seminando il caos nella già complessa, spesso contradditoria, legislazione scolastica sull’argomento.
Al di là delle apparenze tecniche, la questione in gioco non è di poco conto perché concerne la particolare natura dell’IRC nella scuola pubblica italiana, statale o paritaria che sia, e cioè la sua “confessionalità”, il suo essere insegnamento di una religione particolare – e per di più quella cattolica – invece di una più asettica e astratta storia o psico-sociologia delle religioni. Questa è la soluzione proposta da chi, in ossequio ad una concezione neopositivista della religiosità, considera questa come uno stadio infantile dello sviluppo culturale dell’uomo. Secondo questa prospettiva, nella scuola tutte le religioni dovrebbero essere oggetto al massimo di uno studio neutrale di tipo storico-sociologico, documentaristico. Soluzioni basate su questo modello sono state già adottate in Europa, dai Paesi scandinavi al Regno Unito, con il risultato che, laddove esiste per gli studenti la facoltà di non avvalersi di tali insegnamenti, ormai da molti anni essi vengono progressivamente disertati perché l’interesse che esercitano sui giovani è quasi nullo.
In Italia invece la quota di quelli che si avvalgono dell’IRC viaggia ancora su percentuali di oltre l’80% degli studenti, con punte del quasi 97% nel Sud. Questo non vuole dire che la fede e la pratica religiosa siano egualmente vivi e forti a livello familiare o personale, tutt’altro, ma questi numeri ci ispirano alcune riflessioni.
Innanzitutto, c’è da pensare che forse, con buona pace delle élite “illuminate”, ancora persiste nelle famiglie italiane la convinzione che non ci può essere una vera formazione culturale e umana per i propri figli che non tenga conto dell’aspetto religioso. Per dirla con il card. Matteo Zuppi in un passaggio dell’intervista ad Andrea Monda del settembre scorso, “c’è bisogno dell’insegnamento della religione per capire il mondo dove siamo, le nostre radici”. Anche perché, si chiedeva sempre il presidente della Cei, “come si può capire veramente Manzoni, o Dante, o la storia dell’arte, o buona parte della filosofia, senza avere una formazione culturale (non catechetica) religiosa di base?” Proprio per garantire la presenza di questa formazione religiosa, Zuppi auspicava, sempre nella stessa intervista, “un’alleanza con i laici – anche atei – che ben comprendono l’importanza della conoscenza religiosa in un sistema culturale, come quello italiano, profondamente permeato dal fatto religioso”.
In secondo luogo, visto che questo “fatto religioso” in Italia è quello cattolico, non credo che si possa immaginare un insegnamento di tipo religioso serio – capace cioè di rispondere adeguatamente a quell’attesa educativa – che non abbia come fulcro i contenuti teologici, biblici, antropologici ed etici maturati nella viva esperienza di fede della Chiesa.
Infine – terza considerazione – l’IdR non può essere solo un “tecnico” delle religioni, un dispensatore di nozioni teologiche o un animatore etico-sociale. Perché l’interesse di studio degli studenti per quel fatto religioso si ridesti è necessario riaccendere nei ragazzi la domanda che rende attraente la proposta culturale cattolica. L’ora di religione si deve configurare come un’esperienza umana nella quale l’IdR testimonia ai propri studenti come quei “contenuti” provenienti dalla propria storia di fede sono, innanzitutto per sé, continuo termine di paragone delle sue domande di senso.
Così facendo, l’IdR si pone rispetto ai propri ragazzi come esempio di giudizio cristiano sulla realtà, come cultura cristiana incarnata e vivente nella storia presente nel loro stesso mondo, capace di intercettare le loro domande, accoglierle, valorizzarle e sostenerne lo sviluppo in senso critico a confronto con la proposta evangelica.
In altre parole, gli Idr sono “pronti a cogliere gli interrogativi più sinceri di ogni alunno e studente e ad accompagnare ciascuno nel suo personale e autonomo percorso di crescita” (Nota Cei sulla scelta dell’IRC a.s. 2022-2023). È in questo modo che la tradizione culturale cattolica rivive nella scuola in dialogo con le altre visioni del mondo. L’IRC è “una materia che, per sua natura, favorisce il dialogo e il confronto tra persone ed esperienze diverse” (ibidem). Ed è proprio questo che di fatto in massima parte avviene, il “segreto” dell’IRC che giustifica le ancora alte percentuali di famiglie e giovani che si avvalgono di questo insegnamento nella scuola italiana.
A questo proposito, rivolgendosi agli IdR nel 2009, l’amato Benedetto XVI disse: “grazie all’insegnamento della religione cattolica … la scuola e la società si arricchiscono di veri laboratori di cultura e di umanità, nei quali, decifrando l’apporto significativo del cristianesimo, si abilita la persona a scoprire il bene e a crescere nella responsabilità, a ricercare il confronto ed a raffinare il senso critico, ad attingere dai doni del passato per meglio comprendere il presente e proiettarsi consapevolmente verso il futuro”. Pertanto, continuava Benedetto XVI, “a voi [IdR] oltre al dovere della competenza umana, culturale e didattica propria di ogni docente, appartiene la vocazione a lasciar trasparire che quel Dio di cui parlate nelle aule scolastiche costituisce il riferimento essenziale della vostra vita”.
Va da sé, quindi, che ad accertare ed attestare questa particolare “abilità” dell’IdR non potrà mai essere un funzionario ministeriale o un professore universitario di storia delle religioni.
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