Storicamente la partecipazione dei genitori alla vita scolastica è stata l’esito di un percorso lungo e travagliato. L’assunzione di ruoli formali e responsabilità nella gestione della scuola da parte di entrambi i principali protagonisti dell’educazione e della formazione dei ragazzi è stata pensata come finalizzata alla condivisione e alla edificazione di una sinergia tra la scuola e la famiglia.



Ad oggi il rapporto con le famiglie risulta essere una delle attività che impegna molto gli insegnanti nel loro lavoro durante tutto l’anno, in particolare in alcuni momenti. Attraverso i media siamo tutti a conoscenza di fatti, talvolta davvero spiacevoli, che documentano la sfiducia che le famiglie hanno verso le istituzioni scolastiche e quanto tale sfiducia sia ricambiata.



Se è vero che “il bambino o ragazzo porta la famiglia in classe, nel suo zaino, tra i libri, porta con sé il vissuto culturale ricco di tradizioni che ha ricevuto a casa sua” (“La famiglia risorsa o problema? Quale rapporto oggi, oltre le paure, le ansie, le protezioni e i sensi di colpa?”, Maria Grazia Colombo, Dirigere scuole, 2/2019) è altrettanto vero che gli adulti, siano essi genitori o insegnanti, portano con sé una grande varietà di storie belle e/o brutte che determinano scelte, prese di posizione, interessi, punti di forza e di debolezza di ciascuno.

La libertà dell’altro è un punto inafferrabile e ciò può essere causa di grande fatica. L’insegnante si ritrova a impattarsi con un aspetto intimo e profondo della vita dei genitori: il rapporto con i figli, la percezione che questi hanno della realtà, del rapporto con il contesto, con il mondo, l’idea di successo e di insuccesso, di riuscita nella vita, le aspettative verso se stessi e i propri figli, i retaggi familiari, la percezione delle proprie scelte e dei propri errori (i figli di carcerati), le paure, le incertezze.



Eppure proprio dall’incontro di queste umanità è possibile edificare il rapporto scuola-famiglia per la costruzione di un “bene” per gli alunni.

Incontrare il genitore di un bambino/ragazzo con cui stiamo realizzando un percorso di istruzione e, speriamo, educativo è sempre una scommessa, perché è l’incontro di persone, storie che per natura sono irriducibili. E questa irriducibilità è il punto della realtà che ci mette più duramente alla prova. Quanto si è disposti ad accogliere la diversità? A mettere in comune, a condividere? A lasciarsi mettere in discussione? Quanto si è più interessati ad affermare se stessi piuttosto che guardare con stupore la realtà?

Nella mia, relativamente breve, carriera di insegnante, 15 anni, ho avuto modo di lavorare in scuole, ambienti, quartieri molto differenti, con famiglie altrettanto differenti. Non sempre ci sono stati rapporti con le famiglie né tantomeno sempre rosei. Vedere l’incuria con cui sono trattati i bambini in alcuni quartieri veramente poveri, è stato causa di grande dolore. Ma poter condividere tratti di strada con famiglie che amano i loro figli e riconoscono chi è disposto a dare un contributo positivo a questo amore, è molto bello e gratificante.

Tuttavia in questi anni le volte in cui con i genitori si è stati compagni sono state caratterizzate da un fattore comune che non sempre è stato all’esterno della mia persona, anzi direi che in molti casi il punto di partenza è stato il mio sguardo. Quello sguardo di umiltà e misericordia che a volte per grazia accade, per cui riconosco che il limite dell’altro è anche il mio e che le fatiche dell’altro sono le stesse che devo affrontare anch’io tutti i giorni.

Ecco, forse un punto interessante è proprio questo: cosa può esserci di aiuto in un contesto così multiforme e variegato al punto da poter divenire compagni di viaggio, anche solo per un piccolo tratto, di coloro che incontriamo?

Quest’anno insegno in un seconda classe della scuola primaria. Un gruppo di 18 bambini vivaci e affettivamente molto vivi. La loro vitalità per me è come una sfida che devo sostenere ogni giorno. Così, mossa dal desiderio di fare con loro una cosa bella, che rispondesse al desiderio loro e mio di bellezza, li ho invitati a partecipare come volontari alla Giornata nazionale della Colletta alimentare del 30 novembre scorso.

Inizialmente ero molto timorosa, vista l’età dei bambini, ma non appena ho lanciato la prima proposta ho visto i loro volti accendersi. Cercando di non essere avventata, ho detto loro che la condizione per partecipare era che i loro genitori si mantenessero nei paraggi. Al 29 di novembre le adesioni erano sei. La mattina del 30 sono arrivati al supermercato 12 bambini accompagnati dalle rispettive mamme che si sono fermate sino alle 14, dando un grande contributo per la raccolta sia in termini di spesa che di manovalanza. I bambini hanno sfoderato la loro baldanza, invitando chiunque passasse a contribuire con l’acquisto di un prodotto. Una mattinata inaspettata e bellissima per me e per ciascuno di loro.

Nessuno di noi ha sfoderato teorie pedagogiche di nessun tipo, né tecniche psicologiche particolari. Abbiamo fatto “insieme” esperienza che quando si asseconda il proprio desiderio tutta la realtà diventa fonte di stupore e questo ci fa fare esperienza dell’unità.

Da ciò è scaturita una piccola familiarità nuova che cerco di custodire ogni giorno. La libertà nella sua irriducibilità, talvolta, porta giovani e meno giovani a dimenticare ciò di cui si è fatto e si fa quotidianamente esperienza e a rimettere tutto in discussione lasciando che il cinismo e la diffidenza abbiano la meglio. Questo è il punto in cui all’educatore vengono chiesti maturità e professionalità, elementi che a volte si offuscano nello scoraggiamento dell’insuccesso. Non ci si riesce da soli.

Un insegnante, se vuole restare tale, deve cercare e permanere all’interno di una compagnia di altri docenti con cui poter studiare, sostenersi e condividere tutto ciò che può reggere la fatica, e mantenere lo sguardo verso quello spettacolo di bellezza che sono i nostri ragazzi.