Archiviato il rito degli esami di Stato di scuola superiore, i docenti si sono tuffati nell’agognato riposo mentre gli studenti hanno accettato, chi con gioia chi obtorto collo, il voto con cui le loro commissioni d’esame li hanno “licenziati” dal mondo della scuola.
Tuttavia non tutti i giovani delle nostre scuole possono tracciare un bilancio positivo rispetto al percorso appena concluso. Per alcuni di loro il consuntivo assume un sapore amaro, e dal ricordo spiacevole. Come mai? Quando in una classe è solo qualcuno degli insegnanti – o, nel peggiore dei casi, nessuno – a offrire una formazione adeguata, una promozione culturale e umana corrispondente alle aspettative di un giovane in crescita, allora la fine dell’esperienza scolastica non può che essere vista come una sorta di liberazione, l’inizio di una nuova scommessa che continua magari con la sfida universitaria o con la ricerca di un lavoro.
Sì, perché alla fine di un percorso non contano nel dettaglio le migliaia di nozioni apprese, né le abilità né i traguardi di competenze raggiunti, se l’alunno non è stato trattato né stimato dai suoi insegnanti come essere umano in crescita.
Purtroppo i casi in cui i giovani adolescenti si sentono traditi dall’esperienza scolastica e relazionale con i loro docenti sono in aumento, come testimoniano alcune storie emblematiche raccontate nel mese di giugno sui social o su qualche rivista di settore. Qualche esempio tra tutti: lo sfogo di un ragazzo bocciato, indirizzato alla scuola, che lui accusa di averlo lasciato indietro, con indifferenza, perché troppo impegnata a giudicarlo; la lettera di alcuni genitori di ragazzini di terza media che, relativamente ai prof dei loro figli, denunciano – solo a esami completati, per evitare ripercussioni – alcuni comportamenti abituali, discutibili per la poca professionalità didattica, comportamentale e per la valutazione poco trasparente e incongruente; la desolazione di una madre il cui figlio è stato bocciato a giugno, nonostante avesse riparato 4 delle 5 insufficienze del primo quadrimestre, dovute per lo più al suo disorientamento dopo la recente perdita del padre: “una scuola dove è assente la sensibilità, l’umanità, l’attenzione al caso particolare”, scrive delusa la madre.
Anche noi avremmo da lamentare atteggiamenti poco professionali e umani riscontrati per anni in alcuni docenti dei nostri figli, che hanno completato da poco il loro percorso di studi, ma qui ci interessa soprattutto sottolineare le conseguenze educative e formative che permangono in molti giovani delle nostre scuole dopo esperienze annuali o pluriennali trascorse in modo demotivante e sciatto. Quando gli atteggiamenti relazionali e professionali degli insegnanti vengono vissuti dai giovani come distanti per vari motivi, perché anacronistici, incoerenti, o perché privi di passione, di curiosità e di attenzione umana verso le situazioni particolari, gli studenti sempre più spesso maturano questo icastico giudizio: “non vale veramente la pena affrontare al meglio il percorso educativo-didattico scelto!” Un atteggiamento, questo, che li rende pian piano più cinici, passivi, ma che soprattutto li allontana dalla sfida fondamentale con le circostanze, disabituandoli a fare i conti con la realtà scolastica di ogni giorno.
E un fallimento a questo livello di aspettative, oggi, presenta un conto molto salato: agli stessi interessati, a noi educatori e all’intera società. Le spie del malessere con cui i ragazzi vivono la scuola le conosciamo bene: disattenzione e menefreghismo in classe, assenze frequenti e “immotivate”; copiature, falsificazioni e stratagemmi rocamboleschi nelle routine scolastiche; esiti didattici (e statistici) al di sotto di ogni aspettativa; perfino canzonature e violenze verso i professori.
Inoltre, gli studenti che generalmente vivono così vengono ancora più bersagliati dagli insegnanti, che magari li giudicano superficialmente per i comportamenti sbagliati, ignorandone la personalità, la sensibilità e le risorse. Ai comportamenti errati dei ragazzi tante volte corrispondono da parte dei docenti predicozzi teorici, quando non ipocriti, lunghe lamentele durante i consigli di classe, e una distanza sempre più grande tra le due parti. Eppure a volte i ragazzi alzano un muro verso i loro prof solo per manifestare il loro disappunto rispetto a un adulto “chiuso”, indifferente o poco significativo per lui.
Non che tutti gli studenti reagiscano così a una situazione di disagio personale o con i propri docenti, fortunatamente, ma chi non trova nel proprio percorso una motivazione adeguata e un appiglio concreto a reagire positivamente, rispetto alle contraddizioni incontrate, rischia di perdere anni preziosi della propria vita. Ma noi, educatori, possiamo permetterlo? Possiamo reagire ad atteggiamenti di cui ci sfugge la causa giudicandoli errati a priori o addirittura punendoli a ogni occasione “per dare una lezione”? O ancora, non rimanere indifferenti e alzare a nostra volta un altro muro, dividendo la classe in alunni “buoni” e “cattivi”? Non dovremmo metterci in questione provando e riprovando nuove vie per migliorare la relazione educativa?
È dovere imprescindibile e continuo di noi docenti chiederci se agli studenti – man mano che diventano più “esigenti” come soggetti pensanti, non riconducibili alle aspettative del mondo adulto – riusciamo veramente a offrire un percorso formativo adeguato, una promozione culturale e umana che corrisponda all’altezza dei desideri più veri di ciascun cuore in crescita. Sicuramente oggi a un insegnante non basta più “fare il suo dovere” spiegando e interrogando, anche con un discreto livello di passione, se non riesce a comunicare se stesso sia coinvolgendo gli alunni nella ri-scoperta del senso più ampio in cui si colloca la propria disciplina, sia “agganciandoli” a partire proprio dal punto motivazionale, emotivo e conoscitivo in cui si trovano quegli alunni particolari con cui egli ha a che fare ogni giorno.
Non a caso il gap tra docenti e alunni si fa più difficile da appianare proprio negli anni della scuola superiore, in cui i giovani hanno comportamenti sicuramente più discutibili, magari ribelli o apparentemente menefreghisti nei confronti degli adulti; ma proprio allora è decisivo che gli insegnanti non mollino sul piano relazionale, rifugiandosi nel mero insegnamento disciplinare, che risulta educativo solo quando è mediato con passione dalla relazione significativa tra docenti e alunni.
Di fatto, ogni ragazzo viene sminuito quando è guardato solo come oggetto d’insegnamento, e per lui questo focus non è indifferente, perché in particolare nel percorso della secondaria delinea e precisa la sua identità, i gusti e le propensioni; compie delle scelte riguardanti i percorsi universitari e ancor di più la scelta del “suo” modello di vita, che può essere attivo o passivo, ricco o povero di interessi e curiosità, incline alla collaborazione e all’apertura piuttosto che alla chiusura e all’egoismo… ad esempio alcuni ragazzi scartano una certa scelta universitaria perché magari l’insegnante avuto nello stesso ambito ha ottenuto l’effetto di allontanarli da quel determinato settore! E invece di quante figure adulte positive hanno bisogno i nostri giovani per rendere stabili le migliori potenzialità che ciascuno di loro ha dentro!
Bisogna combattere il fraintendimento culturale odierno secondo cui, nell’insegnamento, la relazione distrae dalle questioni didattiche, perché considerata un sentimentalismo poco professionale: in realtà la relazione è di per sé fattore della conoscenza stessa, vi incide prepotentemente, a tal punto che – se è eliminata o ostacolata – la deteriora. Questo è il motivo per cui andare ogni giorno a scuola non è la stessa cosa che frequentare un asettico corso online, specialmente nell’età evolutiva.
Continuiamo ad auspicare, come educatori, una sinergia di attenzioni e risposte: sia dai docenti, sperando che ciascuno – nessuno escluso! – s’impegni concretamente a educare istruendo, e a valutare “dando valore” (anziché punire o sottolineare ciò che manca, come in un’operazione fatta col bilancino di precisione) nel rispetto delle inclinazioni, delle potenzialità e della dignità di ciascun alunno; sia dalla politica, che deve fare di più per rimettere al centro i giovani, l’ora di lezione e la qualità dell’insegnamento.
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