Otto giugno, è finita. Finita? Sì, insomma, più o meno. I ragazzi di quinta lo sanno che non è per niente finita, che ci sono ancora gli esami.

Sia come sia, inizia il tempo dei bilanci, per loro e per noi prof. No, non quei bilanci aridi e stantii rappresentati da un tabellone multicolore, su cui gli insegnanti giocano a far quadrare le medie. Quelli tanto più veri e necessari quanto temuti e, quindi, procrastinati.



E tra le ultime ore a chiacchierare con gli alunni e gli aperitivi di festeggiamento coi colleghi emerge, di soppiatto, la stessa parola. Nessuno ama pronunciarla, ma si intrufola comunque nel discorso, sgradita ospite autoinvitata: ansia. Non fatica, non noia, non stanchezza. Proprio ansia.

Dovrebbero aggiornare la voce del vocabolario, ormai: “parola che comunemente si utilizza per descrivere l’attività scolastica”. Ci siamo abituati, lo diciamo distrattamente e lo commentiamo con una scrollata rassegnata di spalle, come fosse normale. Vale però la pena ricordarsi che non dovrebbe essere così. Mentre pronunciamo quella parola, “ansia”, dovremmo renderci conto di qualcosa che stona, che suona sbagliato.



Per provare a capirci qualche cosa, parto da una considerazione del tutto personale: il “piangimetro” degli studenti registra valori sempre più alti ogni anno che passa. Quando li interroghi capita che scoppino a piangere. Ragazze in maggioranza, vero, ma anche ragazzi (e scardiniamolo, questo tabù che gli uomini non devono versare lacrime).

Lo ammetto, in generale non mi lascio commuovere dai crolli emotivi, il mio cervello da insegnante di filosofia tende sempre un po’ malignamente a pensare che sia il tipico “argomentum ad misericordiam”.

In alcuni casi sarà pur vero, però l’incremento progressivo è innegabile. Di primo acchito penserei di essere diventato più cattivo, più severo, che le mie interrogazioni si siano fatte più dure. Però un dato con questa conclusione non collima: il crollo non è proporzionale alla bravura, nel senso che tanto più uno è preparato, tanto meno esplode. Anzi, ragazze e ragazzi bravi (anche molto bravi, in un caso che ho ben in mente mentre scrivo) mi scoppiano a piangere insospettabilmente davanti, senza che io capisca bene perché. Semplicemente, la bottiglia di champagne ha fatto partire il tappo. Pianto a parte, ho tutto il campionario delle varianti, se lo desiderate: blocchi, mutismi selettivi, fughe in bagno…



Capitasse solo a me, a ripensare a tutto ciò mi sentirei sostanzialmente un mostro crudele che, a quanto pare, finisce per distruggere l’autostima degli studenti incutendo terrore. Fortunatamente (o meglio, sfortunatamente), è un fatto che un po’ tutti i colleghi con cui mi sono confrontato sul tema hanno notato. Perché? Perché tutta questa insicurezza? Perché tutta questa mancanza di autostima? Perché tutta questa… ansia? I programmi sono diventati più difficili rispetto ai tempi in cui ero ragazzo io? No, ne dubito, piuttosto il contrario. E allora perché?

Più mi faccio strada nell’indagine, più si radica in me il sospetto che non sia qualcosa che ora c’è e che prima mancava, ma l’opposto: la scuola – o forse proprio noi insegnanti – deve aver perso per strada qualcosa, qualcosa di importante, qualcosa che non dà più.

Ma Alice attraversa anche lo specchio magico. Il “piangimetro” è salito anche tra noi insegnanti. Certo, non abbiamo ghiandole lacrimali sviluppate come gli adolescenti, ma al campionario delle usuali lamentele da aula professori, di anno in anno, in particolare dopo l’ondata Covid, si è aggiunta un’aria tesa, nervosa, arrabbiata. Arrabbiata con gli studenti, arrabbiata con la scuola, arrabbiata con qualsiasi forma di esistenza che intersechi lo spazio vitale anche per pochi secondi. Entriamo in classe incattiviti? Forse, inconsciamente, sì.

I nostri incubi pullulano di incapacità di mantenere l’ordine nelle classi, di litigare per i mezzi voti, di “quello lì mi sta fregando, adesso vedrai che lo sgamo col cellulare tra le gambe”, di modello 270 e modello 105 e tanti altri modelli di cui non ricordo il codice e che sono sicuro non leggerà anima viva una volta depositati in segreteria.

È questo il nostro lavoro? Rispondere celermente e in maniera efficiente a una lunga sfilata di adempimenti? Nessun insegnante serio vi direbbe di sì, ma tutti gli insegnanti seri che conosco direbbero anche che ci sono settimane, mesi persino, in cui tutto pare cospirare a fissare il pensiero solo su quello. Ansia. Ansia di sentirsi giudicati, ansia di dover giudicare. Ansia di doverlo fare di corsa, perché il sistema – qualunque cosa esso sia – vuole così. Ansia che rimbalza da un lato all’altro della cattedra, in un effetto valanga di rinforzo negativo.

La scuola ha sempre avuto le sue tare, la scuola ha sempre dato voti, giusti o sbagliati che fossero. La scuola è sempre stata un banco di prova della vita futura e insegnare è sempre stato un lavoro faticoso (checché ne dica chi sostiene che gli insegnanti non fanno una mazza). Eppure l’ansia aumenta adesso, dilaga adesso, esplode adesso. Quindi, cosa manca, ora, che una volta forse esisteva?

Risposta breve e deludente: non lo so. Però provo comunque a fare un timido tentativo: manca un criterio di giudizio. No, non fraintendetemi, siamo pieni fino al collo di griglie e grigline che ci permettono di dare punti, mezzi punti, quarti di punto. Il giudizio di cui parlo è un giudizio sulla vita.

Un tempo, nel bene o nel male, si sapeva cosa essere, si sapeva a cosa appartenere. Se volete, chiamatele ideologie, oppure teologie, a seconda. Sicuramente c’erano cattivi insegnanti che biecamente indottrinavano, non lo nego. Ma l’insegnante bravo non era, né mai sarà l’insegnante neutro, il robot, era l’insegnante che a partire da questo suo centro spingeva loro, i ragazzi, a cercarselo a loro volta, un centro… E trovarlo se erano fortunati.

Eppure, la domandina “Perché?” è rimasta lì, non è mai andata via, anche se sepolta da chili e chili di detriti, censure, velocità ed efficienza; ce l’abbiamo dentro e non ci possiamo fare niente. “Perché corri, perché fai, perché devi fare tutta questa fatica, tutta questa corsa?” urla la pianta.

Il nostro cervello finge di non sentire questo insistente grido, c’è il modello 112 da fare…

Per somma sfortuna, però, è un seme che hanno dentro tutti, anche gli studenti. Il seme di una pianta di cui non sanno bene cosa farsene e di cui non sanno il nome, perché nessuno glielo rivela mai.

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