Anche se l’anno scolastico è iniziato, potrebbe essere utile riflettere sulle linee di indirizzo prioritarie e le azioni da intraprendere per valorizzare il “fattore umano”, che è certamente il proprium imprescindibile per l’intera realtà scolastica nelle sue diverse espressioni.

Istruzione e educazione non possono infatti essere ricondotte a una riduzione funzionale, ad una forma di addestramento utile ad un mondo tecnicoeconomico, in un contesto storico e culturale in cui serpeggia il rischio di concepire gli strumenti tecnologici e l’IA (intelligenza artificiale) come nemici o surrogati del pensiero umano.



Il fattore umano, centrale in qualsiasi organizzazione sociale proprio perché per sua natura è costituita dalla presenza e dall’interazione tra uomini e donne, lo è a maggior ragione in una comunità sociale votata alla crescita delle giovani generazioni.

Quali attenzioni può dunque mettere in atto la scuola per porre al centro delle sue scelte e delle sue azioni il “fattore umano”?



*Riaffermare la centralità della persona: dagli studenti a tutti gli adulti che lavorano a scuola. Occorre rinsaldare la stretta correlazione tra apprendimento e insegnamento, favorendo il protagonismo degli studenti che devono essere sfidati a “mettere le mani in pasta”, a essere protagonisti della dinamica dell’imparare, senza assecondare processi di replicazione quali quelli della catena: ascolto della spiegazione, riproduzione nell’interrogazione.

Il collegio docenti, se non vuole essere ingabbiato nella riproposizione di contenuti astratti, lontani dagli interessi e dai bisogni dei giovani, è chiamato a una continua ridefinizione dei curricoli per identificarne i nuclei essenziali delle diverse discipline, anche in ottica transdisciplinare e nella maturazione di uno stile di fare scuola in cui si valorizzino la ricerca, la didattica per problemi e l’approccio argomentativo. Con queste premesse le aule diventano luoghi in cui discenti e docenti, nel rispetto delle diverse competenze, studiano, fanno ricerca e generano conoscenza.



Non è un obiettivo facile da raggiungere, perché si tratta, in alcuni casi, di lasciare una “comfort zone” in cui ci si è rifugiati per parecchio tempo. Potrebbe essere d’aiuto, per il sostegno di questa posizione professionale, la programmazione di momenti formativi e di aggiornamento condivisi, curati e coordinati dall’azione del dirigente.

Rivalutare il “fattore umano” implica il rifiuto di qualsiasi standardizzazione: non esiste “l’alunno medio”, come ricordano le Indicazioni nazionali del primo ciclo del 2012, ma persone diverse, portatrici di talenti unici, come non esiste un solo tipo di intelligenza, lo ha ricordato, ormai parecchio tempo fa, Gardner. L’azione didattica è chiamata a intercettare i talenti individuali, come indicato sia nelle Linee guida per l’orientamento, sia nelle recenti Linee guida per l’insegnamento dell’educazione civica, innanzitutto attraverso la cura della relazione educativa e la proposta di percorsi personalizzati di apprendimento. Solo a queste condizioni per lo studente diventa possibile creare e identificare il “capolavoro”, oggetto dell’esame di Stato. Nella scuola che dirigo, durante gli esami della scuola secondaria di primo grado le commissioni sono state stupite, durante il colloquio orale, dalla visione e dalla spiegazione di alcuni capolavori, che hanno effettivamente documentato talenti che forse non erano stati pienamente riconosciuti e valorizzati nel percorso scolastico.

Il “fattore umano” sta al cuore dell’avventura della conoscenza, come ci ricorda Benasayag nel suo Funzionare o esistere? (Vita e Pensiero, 2019, p. 56): “Per il vivente il mondo è esperienza, ciò che risulta impensabile per una macchina. Fare esperienza significa che, a partire dalla nostra singolarità, che include quella della specie di appartenenza, della sua evoluzione e della sua cultura, sempre i nostri atti sono causati in un orizzonte di senso e al contempo forieri di senso”. Molta della noia che i ragazzi associano all’esperienza scolastica viene da un insegnamento che rischia di fermarsi alla trasmissione di informazioni e di contenuti, senza alcuna implicazione con la domanda di senso che è propria del fattore umano. Educare etimologicamente richiama all’idea del “portar fuori”, ma non basta portare fuori, è necessario indicare una direzione e aiutare alla formulazione di un giudizio. La mancata considerazione del senso porta ad adattamenti passivi o all’affermazione maniacale di obiettivi di piccolo respiro, che minano la crescita di uomini e donne liberi e ne impediscono il loro apporto creativo all’intera società civile.

La centralità del “fattore umano” chiede alla scuola di promuovere in sinergia competenze cognitive e non cognitive, delle quali molto si è parlato su queste pagine anche recentemente, per salvaguardare l’interezza della persona e la sua crescita in tutte le dimensioni dell’io. Non c’è infatti alcuna conflittualità tra cognitive e non cognitive skills, tra competenze e saperi. Le une sono in stretta correlazione con le altre, per questo uno dei modi, anche se non l’unico, per porre attenzione alle non cognitive skills è la loro considerazione all’interno dell’insegnamento delle diverse discipline scolastiche.

La valorizzazione del “fattore umano” consente di promuovere a scuola una socialità fattiva aperta alla collaborazione e lontana dalla competizione, che è invece generatrice di ansia e di ritiro sociale tra i nostri giovani. Il gruppo classe necessita di cura, di promozione di relazioni positive tra i pari e con gli adulti. Occorre favorire percorsi di apprendimento in cui gli studenti siano chiamati a lavorare insieme, a comprendere che il contributo di ciascuno è essenziale per l’avventura della conoscenza comune. La ricerca, la conoscenza sono fatti sociali, la classe è una comunità di apprendimento e quando il clima predominante è quello dell’impegno e della volontà di imparare, anche per chi fa più fatica ed è più recalcitrante è possibile trovare la strada del coinvolgimento.

La cura del “fattore umano” chiede anche l’esercizio paziente di non voler cambiare tutto subito con la pretesa di avere la totalità degli attori consenzienti. A volte è possibile partire solo con un gruppo più ristretto, certi che le pratiche virtuose arrivano a contagiare poi anche chi è meno convinto. All’interno di questa dinamica resta imprescindibile il ruolo del dirigente scolastico, che deve condividere con tutti la vision e le priorità del suo istituto, ma nello stesso tempo sostenere chi è più lungimirante nella realizzazione degli obiettivi prioritari dell’offerta formativa.

Una scuola che valorizza il “fattore umano” non può tralasciare la cura dell’alleanza educativa con le famiglie. Un’alleanza non corporativa, come se dall’altra parte ci fosse, almeno potenzialmente, un nemico, e che abbia come finalità la crescita degli studenti. Un’alleanza che non deve evitare però al ragazzo il rischio dell’iniziativa, della libertà, rifuggendo quindi dall’eccesso di protezione, dalla deriva securitaria, soprattutto da parte dei genitori. I genitori, diceva Lacan, sono custodi del desiderio del figlio, chiamati quindi a far crescere il desiderio, non a soffocarlo con eccessive ingerenze e con la proiezione delle proprie aspettative.

Per quanto possa valere il tentativo di sintetizzare con una sola espressione una delle finalità a cui la scuola non può rinunciare, si potrebbe indicare la competenza dell’imparare a imparare, come ricordano Giaccardi e Magatti nel loro recente libro Generare libertà (il Mulino, 2024, p. 103): “Per l’essere umano e le sue organizzazioni, imparare a imparare vuol dire rimanere vivi. Si rimane vivi, creativi solo fintanto che si continua a stupirsi, a scoprire, a immaginare, a creare. Il che è molto probabile all’interno di ambienti capaci di creare fiducia, comunicazione, collaborazione e che per questo sono capaci di sviluppare un’intelligenza viva, mai solo astratta, incorporata, circolante e integrale. Cioè, concreta.

La cura di questi ambienti è responsabilità non delegabile dell’intera comunità professionale della scuola.

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