“Tutor buongiorno le volevo dire che noi da domani in poi faremo una ribellione perché già noi l’anno scorso abbiamo perso un anno di scuola per colpa del virus a noi questa cosa non sta bene che tutti hanno la scuola e superiori no noi glielo stiamo dicendo perché la vogliamo bene a lei il direttore i professori perché voi non centrate niente però solo così possiamo fare aprire le scuole noi non vogliamo che la scuola ci aiuta a fare le video lezione tipo con internet e cose varie perché non ci collegheremo ugualmente ma no per essere prepotenti o per non andare a scuola ansi noi questo lo stiamo facendo perché vogliamo tornare a scuola tutor lei ci deve capire perché noi non possiamo stare più ad imparare dietro a uno schermo perché non è coretto perché ne che sono tutte le scuole chiuse e quindi ce ne facciamo una ragione no!!!! bacio 2A❤️❤️”
Questo è il messaggio – testuale! – ricevuto da un tutor di un Centro di Formazione professionale di Catania da una classe seconda. Un messaggio scritto tutto d’un fiato, in un italiano stentato, possiamo dire drammaticamente stentato, pensando che è scritto da ragazzi di 15 anni, ma un grido di ribellione potente, drammatico. Esempi di rivolta, pacifici come questo, ne stiamo vedendo molti in Italia, con forme e accenti diversi, moti che non possono non interrogarci.
Cosa manca a questi ragazzi? Sono ragazzi che vorrebbero diventare acconciatori, estetiste, cuochi, camerieri, panettieri, meccanici, termoidraulici. Un anno fa faticavamo a farli venire a lezione ed ora indicono una specie di sciopero, una ribellione per poter fare le lezioni in presenza. Cosa sta accadendo? Troppo semplicistico dire “a casa si annoiano”, non basta come spiegazione, soprattutto pensando a questi ragazzi che a Catania avrebbero molte alternative.
A questi ragazzi mancano i loro maestri e i loro sguardi attenti, i compagni con cui condividono le speranze, i laboratori in cui imparano un mestiere mentre sono educati a diventare grandi.
Manca loro un luogo, un luogo fatto per loro.
Molti di loro hanno fatto a botte con la scuola e le loro famiglie sono fragili e spesso complicate, ma hanno intravisto la possibilità di cambiare la loro vita, hanno trovato un luogo che li ha accolti e che ora la realtà sembra loro negare.
Ecco, la dinamica educativa si insinua proprio nella crepa della mancanza, quella mancanza che noi adulti educatori dobbiamo cogliere, quando è appena sussurrata così come quando è urlata come ribellione.
La percezione della mancanza nasce proprio dalla sproporzione che emerge quando c’è qualcosa che mi attrae, mi affascina, mi attira e fa nascere il desiderio. “Vorrei diventare come quello chef, vorrei saper riparare le auto come quel meccanico!”.
Perché è necessario partire proprio da questa mancanza?
È da anni che nei momenti di formazione dei docenti io lancio la provocazione “Dovete essere custodi di una mancanza” perché nei miei trenta anni di lavoro educativo con i ragazzi ho sempre verificato che finché non si accorgono di una mancanza (di saperi, di competenze, di soft skills diremmo oggi, di senso) tutte le strategie, anche quelle più innovative, sono destinate a non lasciare il segno.
Questa è l’esperienza che ho anche sempre fatto io nella mia vita: solo quando percepisco la mancanza, tutto di me si muove per cercare di colmarla, per capire come colmarla, per scrutare con sguardo attento che cosa potrà colmarla.
In questi ragazzi non sta vincendo la paura per questo periodo, ma l’attrattiva per la possibilità che avevano intravisto di poter cambiare la loro vita. Lo urlano poiché temono che quell’attrattiva non permanga. Lo gridano maldestramente perché temono venga meno per loro la possibilità che qualcuno possa dire loro “Tu per me sei la cosa più importante dell’universo”.
Si teme di perdere qualcosa quando anche solo per un istante lo si ha intravisto, lo si ha toccato. E da lì nasce la paura. Ciò che davvero ci fa paura è la solitudine, non avere una mano cui aggrapparci, degli occhi da cui essere guardati. Abbiamo paura che ci manchi un rapporto e perciò perdiamo ogni certezza. La stessa paura che in questi giorni blocca la vita di molti di noi nel nostro impegno con la realtà che ci viene consegnata. Questi ragazzi non si sono fatti bloccare, non hanno dubitato di un rapporto con il loro tutor e con i loro docenti, anzi hanno trasformato questa mancanza in una richiesta virile, impetuosa, sgrammaticata, magari sotto le spoglie di un’ingenuità adolescenziale.
Non possiamo non prendere sul serio questa mancanza.
Siamo di fronte ad una sfida che chiede a tutti noi di mettersi in gioco per non lasciar cadere nella dimenticanza e nel cinismo il grido di questi ragazzi.
È una sfida alla scuola tutta, ma che vede coinvolti in prima linea proprio i sistemi ordinamentali di formazione professionale (IeFP e Its), perché proprio questi strumenti di educazione, fin dalla loro origine, hanno avuta la capacità di accogliere i ragazzi e i loro desideri, rispondendo contestualmente alle esigenze delle imprese.
È una sfida a tutti noi docenti ed educatori; dobbiamo rimetterci in gioco per trovare modalità efficaci di apprendimento, per fare lezioni a distanza, perché la “presenza” che invocano i ragazzi catanesi e moltissimi altri in Italia non si perda totalmente, perché questi rapporti capace di introdurre nella realtà non vengano meno. Dobbiamo accettare di innovarci e di innovare i nostri enti di formazione, perché la ripartenza ci trovi preparati ad accompagnare giovani nel mercato del lavoro con la preparazione professionale adeguata e con quella percezione della mancanza che permetterà loro di formarsi durante tutto l’arco della vita. Giovani così saranno essenziali per una ripartenza di tutta una società.
Una delle proposte a mio avviso più efficaci per rispondere a queste esigenze è quella che ha lanciato Forma – Associazione italiana a cui aderiscono i principali enti di formazione – con un Piano per la Competitività e l’occupazione, da attuare con il Recovery Plan; prevede l’inserimento al lavoro in 5 anni di 330mila persone, in prevalenza giovani, con dei percorsi di apprendistato retribuiti. Non sostituirà l’impegno che tutti noi giornalmente metteremo in atto per non disperdere nessuno dei nostri giovani, ma certamente potrebbe rappresentare un tassello, in un grande piano di rilancio, con cui l’Ente pubblico sostiene efficacemente il lavoro di noi educatori nel non ignorare il grido di migliaia di giovani e nel rispondere alle mutate esigenze delle imprese.