La scuola è il luogo dei giovani per eccellenza. Mettere l’alunno al centro è diventato uno slogan da tutti utilizzato. Ma conosciamo veramente chi sono i giovani? Silvio Cattarina, responsabile delle comunità de L’Imprevisto di Pesaro, in un recente incontro con i docenti delle Scuole “Romano Bruni” di Padova li descrive così: “Un giovane è sempre un grande bisogno, è sempre una grande attesa, è sempre una grande richiesta verso l’adulto.



Non esiste il giovane, non esiste il piccolo, se non per esprimere questo bisogno. Il piccolo, il giovane in quanto tale – si può dire, sbrigativamente – è una esistenza che non c’è, ma c’è per questa richiesta, per questo sguardo verso l’adulto, per questa scintilla, per chiedere l’educazione, per essere acceso. Invece spesso noi cadiamo nell’errore di dire che il giovane, il ragazzo è uno che non ha voglia, uno che non sta a sentire, che si ribella, che è distratto, che piange, quando son piccoli; oppure, quando sono più grandicelli, l’adulto dice che il ragazzo è aggressivo, che non ne vuol sapere, che fa solo casino. Non è così!”.



Dato questo incipit Cattarina chiama subito in gioco gli insegnanti, non fa loro sconti, per lui gli adulti sono sempre in prima linea: “L’adulto deve stare attento a come guarda le cose, attraverso quali lenti le giudica: quelle del cuore o quelle dell’apparenza?”.

Ma come fa il docente a giudicare in questo modo? Cosa lo può aiutare a non fermarsi all’apparenza? Per indicare a tutti come questo accade nella sua esperienza, Cattarina racconta il suo metodo: “Spesso in comunità fermo un ragazzo e gli dico: ‘Rispondi a questa domanda: Qual è la cosa più bella che c’è in tutto il mondo, la più preziosa, più ammirabile, la cosa più grande che c’è in tutto il mondo?’ I ragazzi mi guardano, sbalorditi, dicono ‘Non lo so’, cioè vorrebbero dire che non esiste nessuna cosa bella! Ti guardano e non rispondono: nessuno dice ‘Io, io sono quella cosa, la cosa più bella sono io!’. I ragazzi d’oggi non hanno più questo ardore, questo entusiasmo, di dire io”.



Di fronte a questi ragazzi che adulti ci sono? Quale posizione diventa allora vera e di aiuto alla vita dei ragazzi? Ancora una volta c’è un adulto che viene chiamato in causa senza mezzi termini: “Ognuno, anche noi adulti, dovremmo dire io. Occorre che di nuovo riusciamo, ancora, con forza, a farli esprimere così, a farli gridare questa presenza, quest’esigenza insopprimibile, irriducibile di essere, dell’essere. Capite però che se pensano di essere capitati al mondo inutilmente è difficile che possano desiderare di esplodere in questo modo, di voler vivere a un’altezza vicina al desiderio del loro cuore”.

Il primo a mettersi in gioco nel rapporto con i ragazzi, così come sono, è lui – l’adulto – perché l’educazione è comunicazione di sé: “Una delle cose che faccio con i miei ragazzi è di dire subito, fin dal primo giorno che sono arrivati: ‘Siamo venuti al mondo per una grande cosa! Cerchiamola insieme, studiamo, ingegniamoci, interroghiamoci, combattiamo per cercare se c’è, questa grande cosa, verifichiamolo insieme. Io la penso così, io credo in questo, è sicuramente così, lavoriamoci intorno’”.

C’è una grande possibilità per ogni insegnante per vivere la scuola come esperienza all’altezza della grande attesa che è il proprio cuore e quello dei giovani e per Cattarina è semplice: “tutto si gioca fin dai primi momenti dell’incontro con un ragazzo, fin dal primo giorno di scuola, dalla prima ora di lezione, da come un’insegnante entra in classe, con che passo, con che ritmo, baldanza, sorriso, con che ampio, aperto gioco delle mani quando saluta e parla… tutto discende da quanto lontano e luminoso è l’orizzonte che i suoi occhi scorgono guardando in volto gli alunni che avanti a lui si parano”.

Al collegio unitario dei docenti delle Scuole “Bruni” Cattarina lascia una consegna ben precisa, accompagnando ogni insegnante presente a dire “io” perché questo è ciò che i ragazzi ultimamente attendono: “Una maestra, un insegnante, se entra in classe con entusiasmo fa capire, immancabilmente, che il bene è sempre più grande di qualsiasi grande male. Allora il bambino dice ‘Ho un insegnante che ha fiducia nella vita, la voglio anch’io quella fiducia’. Dirà questo sicuramente. Un maestra, un’insegnante, che entra in classe così, il bambino la vede, la sente, capisce che la sua insegnante è così, che è felice, che ci tiene, che è contenta di arrivare e di vederlo, di posare il suo sguardo su di lui, ancor prima che la maestra giunga in classe… ancor prima che giunga a scuola, quando è ancora nel piazzale che sta mettendo fuori il piede per scendere dalla macchina… sì, il bambino in cuor suo sorride e dice: ‘La vita è bella’, gli entra dentro la convinzione che la vita è bella, allora dice: ‘Io valgo, io sono!’, perché la maestra è bella, perché la maestra è felice”.

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