Un diluvio di articoli, interventi in tv, commenti sui social. Indignazione, sottoscrizioni, manifestazioni a favore della docente di Palermo sospesa 15 giorni per il video realizzato dai suoi studenti che accosta Salvini e il suo decreto sicurezza alle leggi razziali di Mussolini.

Oggetto delle contestazioni è la censura alla libertà di espressione e l’attacco alla libertà di insegnamento tutelata dalla Costituzione.



Fatti accertati pochi e vaghi, come spiega l’articolo di Emanuele Contu, pubblicato su questa testata, dove, in controtendenza rispetto a quello che leggiamo ovunque, si osserva che “i fatti sicuri sono minimi e in dubbia relazione reciproca”.

Si tratta dell’ennesimo polverone mediatico dell’era contemporanea, dove tutti scrivono, urlano, commentano, spesso dimostrando di non avere neppure le coordinate per inquadrare correttamente ciò di cui si parla. C’è chi imputa la censura tanto contestata al potere politico, mentre il responsabile del procedimento disciplinare è sempre esclusivamente un dirigente, in questo caso dell’Usp di Palermo. Mi aspetterei da gente di scuola, che conosce le norme sulle sanzioni disciplinari, che ci fosse la cognizione della distinzione fra politica e amministrazione, principio base dell’ordinamento giuridico.



Poi, come sempre, c’è chi “soffia sul fuoco”, dando una lettura dell’accaduto secondo la propria visione delle cose, o di destra, o di sinistra, o sindacale.

Nessuno, finora, ha indagato e spiegato al pubblico gli addebiti che dovrebbero essere stati contestati alla docente prima di arrivare alla sanzione disciplinare, considerando che la norma punisce le “condotte antidoverose dell’insegnante”, ma sottolinea più volte che non si deve sindacare, neppure indirettamente, sull’autonomia della funzione del docente.

In questo gran bailamme, vorrei fare una semplice riflessione sul ruolo dei media e sulla funzione educativa della scuola.



Il ruolo dei media. Troppa approssimazione – Oggi la diffusione della notizia si basa in primo luogo sulla velocità (bisogna uscire per primi), e in secondo luogo sulle visualizzazioni, i like, il numero dei commenti. Sono le caratteristiche dei giornali online, che hanno soppiantato la carta stampata. Ma i limiti cominciano a essere pesanti, se ci teniamo a un’informazione corretta.

Quanti giornalisti, nella corsa alla notizia da diffondere immediatamente, hanno il tempo di verificare e approfondire? Si riprende la notizia, rilanciandola. Se c’è un errore, un particolare poco chiaro o non sicuro, lo ritroviamo pari pari in decine di siti.

Facciamo l’esempio di una notizia che qualche mese fa ha avuto grande risalto, ed è stata rilanciata a ripetizione: l’“insegnante di inglese” cha ha avuto un figlio dall’allievo minorenne. Non era un’insegnante. Un giornale ha verificato e informato qualche giorno dopo. Ma faceva più audience presentarla così, e la maggior parte dei giornali continua a fare titoli con l’“insegnante di inglese”. Alla faccia della corretta informazione, dell’accuratezza, della verità.

Eppure, il giornalista avrebbe l’obbligo deontologico di ricercare, raccogliere, elaborare e diffondere ogni dato o notizia di pubblico interesse “con la maggiore accuratezza possibile” e “secondo la verità sostanziale dei fatti”.

Ma, o tempora, o mores, la deontologia giornalistica non regge alla rivoluzione dell’informazione.

Il ruolo formativo della scuola. Troppa superficialità – Chi lavora nella scuola sa che gli studenti “millennials”, cresciuti a videogiochi, social e Nutella, hanno cambiato modo di pensare. Un tempo il pensiero era qualcosa di strutturato secondo un procedimento logico per deduzione o induzione. Il ragionamento era complesso. Le generazioni che hanno studiato nella scuola prima delle riforme erano educate al sillogismo aristotelico, al metodo del dubbio cartesiano, alla dimostrazione galileiana, al pensiero critico.

Adesso il pensiero si esprime per tweet e rapidi post. Il ragionamento non esiste più. Nella raffica di tweet e post di uno stesso autore, spesso manca anche un minimo di coerenza fra il prima e il dopo.

La scuola risente di questo clima e si adegua. Nessuno più è in grado di educare i ragazzi al pensiero critico. È qualcosa di troppo profondo nell’era della superficialità, dove molti credono a tutto, senza minimamente esercitare un ragionevole dubbio, o verificare leggendo un’altra fonte.

L’accostamento Salvini/Mussolini, decreto sicurezza/leggi razziali è frutto purtroppo della cultura “mordi e fuggi” dei nostri giorni. Fino a qualche anno fa uno spirito così acritico non si trovava facilmente nelle scuole. Adesso è perfino elogiato per la “creatività”.

Certo non si fa il bene dei ragazzi, perché crescono senza le coordinate fondamentali: non conoscono adeguatamente il fatto storico, non sanno capire la differenza abissale che corre fra quel contesto storico di una dittatura alla vigilia di una guerra costata milioni di morti e la situazione attuale fondata su una Costituzione democratica, dove le leggi seguono il procedimento costituzionale e hanno le garanzie costituzionali.

Da ultimo sarebbe bene ricordare, stando alle norme tuttora vigenti, che ai docenti è sì “garantita la libertà di insegnamento intesa come autonomia didattica e come libera espressione culturale”, ma questa è finalizzata esclusivamente alla trasmissione della cultura e alla “piena formazione umana e critica della personalità degli alunni” (T.U. 297/94).

Ma, o tempora, o mores, anche nel mondo della scuola il “vecchio” pensiero critico è travolto dalla nuova “cultura” di Twitter, Facebook, post emozionali e video creativi.