Ciò che colpisce nei dibattiti che si stanno accendendo sulla scuola in questo periodo conclusivo dell’anno è l’incapacità di uscire dai parametri – mentali, prima ancora che organizzativi – su cui continua ad essere incardinato il sistema. Bocciare o tutti promossi? Questo il dilemma. Che manifesta da un lato la paura (in Italia una certezza) dei possibili ricorsi, dall’altro un’impreparazione e un vuoto totale su come valutare e – a monte – sulla capacità di mettere in atto modalità di insegnamento non trasmissive. La risposta del nuovo ministro è stata corretta e ha giustamente ricondotto alle proprie responsabilità i consigli di classe.



Anch’io ho letto con rinnovato stupore l’affermazione di una dirigente scolastica di Milano sul Corriere della Sera di lunedì 29, secondo la quale “con le lezioni a distanza la valutazione è in molti casi impossibile: si possono valutare le competenze, ma non le conoscenze”. Dichiarazione che la dice lunga sul come l’approccio per competenze, che implica la messa in gioco delle risorse dello studente, oltre che lontano dalla pratica diffusa, sia considerato ancora come non decisivo sul piano valutativo. Oggi siamo bombardati da informazioni. In senso letterale: sono le informazioni stesse che ci raggiungono in tutti i modi. Il problema è come selezionarle, distinguerle in base ad attendibilità e congruità. Ciò che occorre, quindi, è proprio insegnare a “copiare” bene e “assemblare” i pezzi in modo funzionale, intelligente, finalizzato allo scopo. C’è qui un’importante indicazione di metodo e un’occasione di lavoro. Altro che bendare i ragazzi o trovare improbabili escamotage perché non sbircino dal libro o dallo smartphone! Operazione ridicola, impossibile, ma soprattutto assurda, perché oggi non ha semplicemente senso puntare sull’acquisizione di “conoscenze” nella vecchia modalità. La realtà è profondamente cambiata e un dato è ormai certo: ciò che finora è stato e nel sistema accademico e scolastico è ancora ritenuto l’hard, il contenuto essenziale della formazione della persona capace di garantire il suo successo personale e sociale-lavorativo, ossia un solido bagaglio di conoscenze e skills, ora diviene sempre più secondario, assorbito di fatto dai processi di digitalizzazione e automazione. Questi ultimi stanno progressivamente superando tutto ciò che è routinario e non solo – si badi – a livello di skills manuali, ma anche, se non più, di tipo cognitivo.



Le competenze che aumentano di rilevanza (vedi rilevazione su base Excelsior dei fabbisogni delle aziende) sono da un lato quelle digitali, ormai parte integrante delle hard, dall’altro quelle connesse alla flessibilità, all’adattabilità al cambiamento, al problem solving, al pensare fuori dai soliti schemi, cui si connettono le competenze cosiddette sociali ed emozionali, legate al carattere, alla capacità di lavorare e pensare in maniera autonoma e con gli altri. Un insieme, quest’ultimo, spesso indicato con il termine soft o socio emotional skills e che risulta sempre più decisivo, capace di fare la differenza. Da una analisi effettuata da Inap sulle job vacancies, infatti, dal 2018 al 2019 emerge un aumento significativo sulle richieste aziendali in termini di competenze soft.



Che senso ha allora disarticolare le conoscenze dalle competenze e lo sviluppo di queste da quello delle cosiddette soft? Come è possibile separare queste dimensioni nella prassi formativa e non prevedere per esse specifiche forme di accertamento e pesi valutativi coerenti con il loro grado di importanza? Non è forse vero che l’utilizzo di una conoscenza – che ne so, di un verbo nella gestione di una situazione comunicativa – ne attesta già il possesso e, pertanto, possiede maggiore valore? I libri e accanto ad essi anche i canali e le fonti informative usuali dovrebbero stare ben squadernati davanti ai ragazzi; le prove dovrebbero consistere in verifiche sul come li si comprende e utilizza, risolvendo problemi, con un peso di risultato superiore a quello delle semplici acquisizioni di conoscenza. Non solo in via emergenziale, causa pandemia Covid, ma nella normale attività didattica.

Che cosa dire dunque sull’amletico dilemma del “bocciare o non bocciare”? Sicuramente che promuovere tutti perché non si è stati in grado di garantire appieno la valutazione nelle forme tradizionali dell’accertamento, centrate sulle conoscenze, non solo rappresenta una sorta di condono generalizzato, ma soprattutto una dichiarazione di incapacità a cogliere la necessità, oltre che l’opportunità di un cambio di passo. Perdendo anche tutto il valore e la ricchezza di quanto fatto – perché c’è chi l’ha fatto – con grande fatica in questo periodo, sia dai docenti che dagli studenti. Specialmente ora i risultati non devono andare persi e per questo non importano tanto i quantitativi (di ore fatte o di contenuti di “programma”), bensì gli incrementi qualitativi di competenza, sul piano personale e sociale, oltre che culturale. Su questa base bisogna decidere, con responsabilità, non solo se, ma soprattutto come far proseguire nel loro percorso gli alunni.

Ma qui si tocca un altro grande limite del nostro sistema scolastico: per l’intero blocco di una annualità l’alunno deve tenere il ritmo e stare al passo di quanto mediamente stabilito per tutti i suoi compagni e di fatto il suo percorso non può discostarsi se non marginalmente, come tempi e modalità da quello del gruppo classe. Se non con qualche piccola eccezione (biennio dell’Ip), nel sistema di istruzione secondaria non è prevista la possibilità di procedere in modo cronologicamente differenziato nei diversi ambiti disciplinari e con una sostanziale personalizzazione del curricolo. Tutto è scandito per blocchi di annualità. La regola per proseguire è o tutto (= sufficienza in tutte le materie) o niente (= fermi un anno, a rifare tutto quanto daccapo). Anche i passaggi da una “classe” a un’altra non possono attuarsi quando ne emerge l’esigenza: avvengono o all’inizio o al termine dell’anno, per durare un’altra intera annualità. E i cosiddetti “recuperi” non sono altro che un allineamento al livello del gruppo e al blocco uniforme di sviluppo annuale. Infatti nella stragrande maggioranza dei casi non funzionano; assomigliano piuttosto a una sorta di accanimento terapeutico: la minestra è sempre quella e il fatto di riscaldarla o di riproporla in piccole dosi non la rende di certo più digeribile.

Se non si comincerà ad affrontare in modo serio questi nodi, ogni soluzione sarà un palliativo e un rinvio – a dire il vero anche poco decoroso –, nell’attesa illusoria che tutto ritorni come prima.

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