Cosa c’entra la felicità? (Feltrinelli, 2022), il nuovo saggio di Marco Balzano, affronta un tema che sta a cuore a tutti noi, se è vero che ognuno nella vita aspira a essere felice.

Evitando formule precostituite, l’autore torna all’origine della parola felicità, analizzandola in quattro diversi contesti culturali nei quali si è sviluppata e ha preso forma: il mondo, greco, quello latino, quello giudaico-cristiano e quello anglosassone. Spaziando dalla filosofia alla politica alle Sacre scritture, Balzano è riuscito a far dialogare il presente e il passato, conducendo un’indagine etimologica che senza mai annoiare appassiona il lettore alla storia che questa parola porta con sé.  Il primo capitolo è interamente dedicato all’analisi del concetto di felicità presso i greci. Dai due volti della felicità più arcaici che racchiude la lingua greca, ólbios e eutykés, legati all’ineluttabilità e al caso, si giunge, attorno al VI secolo a.C., con l’avvento delle città-Stato, a coniare una nuova parola: eudaimonía. Legata alla necessità di conoscenza di sé, attraverso la ricerca del proprio demone e il conseguimento della virtù, ovvero la capacità di svolgere in modo eccellente il proprio lavoro, questa vita felice diviene per la prima volta accessibile a tutti e spendibile al servizio della comunità.



Il secondo capitolo è dedicato invece alla felicitas latina, che ha a che fare con l’abbondanza e la fortuna e si compie come un duplice atto. L’etimologia del suo nome, infatti, deriva dal verbo felo, che vuol dire “succhiare il seno”, “allattare”. La felicità è un continuo trasferimento di nutrimento verso il proprio figlio da parte della madre, la quale è felice nel vederlo trarre giovamento e crescere; è una dimensione in cui domina la cura dell’altro e chiede un superamento della propria individualità.



Il terzo capitolo è dedicato all’ashrè  (“colui che è detto felice”) che a sua volta deriva dal verbo ashar, “camminare”, “andare avanti”. L’individuo per essere felice deve “procedere” e imboccare la strada giusta che lo condurrà a Dio, “alla sola vita autentica dove la felicità diventa beatitudine”.

L’autore si sofferma sulla portata rivoluzionaria del discorso evangelico che ribalta le precedenti visioni della felicità. Gesù, infatti, proclama beati coloro che noi siamo portati a considerare infelici: i sofferenti, gli affamati, coloro che soffrono… Una felicità che può cominciare già su questa terra, ma, come scrive sant’Agostino, non si è veramente felici che nell’attesa, perché grande è la certezza della beatitudine che verrà. Ed è sempre sant’Agostino a ricordarci che ciascun uomo ne avverte il desiderio perché l’ha conosciuta, prima di nascere, in Dio, che ha lasciato la sua impronta in ognuno di noi.



Infine, l’ultima strada è quella della happiness, da to happen (“cadere”, “accadere” o “capitare”), che è diventata codice universale del nostro tempo. Per gli anglosassoni la felicità è semplicemente qualcosa che accade, è legata dunque al destino e all’idea antica che ne avevano i greci o a quella medievale, che la rappresenta come la Dame Fortune, una signora che gira la ruota a suo piacere.

La felicità in questa visione dura un attimo e pertanto bisogna saperla cogliere. Balzano mette in relazione questo tipo di felicità con l’aneddoto della caduta della mela in testa a Isaac Newton; un evento casuale che lo ha portato però a scoprire e formulare la legge di gravitazione universale. È proprio nell’occasione della caduta accidentale della fortuna su di noi che possiamo giocare lo spazio della libertà d’azione, sottolinea l’autore, riuscendo a coglierne il senso per farne un dono di condivisione.

Si tratta di un saggio che non vuole tanto dare delle risposte quanto piuttosto suscitare delle domande e offrirci una pluralità di senso e possibilità alternative di fruizione, per sfuggire all’idea riduttiva offertaci dalla società odierna che lega la felicità principalmente al possesso di qualcosa di materiale o al raggiungimento dei propri obiettivi.

Un libro interessante anche da proporre in un contesto scolastico. Gli studenti scopriranno con sorpresa che la prima tappa verso la felicità è la scuola: scholé significa “vacanza”, “ozio”, perché indica il tempo necessario a conoscere noi stessi e a coltivare il nostro demone, ma anche perché come la polis è il luogo dello scambio, dell’incontro, del dialogo che ci e-duca, facendoci maturare. Alumnus (“alunno”) deriva, infatti, da alĕre, che vuol dire proprio “allevare”, “nutrire”.

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