Caro direttore,
“Da fanciulli, se una veduta, una campagna, una pittura, un suono ecc. un racconto, una descrizione, una favola, un’immagine poetica, un sogno, ci piace e diletta, quel piacere e quel diletto è sempre vago e indefinito”. Questa è una delle celebri categorie uscite dal calamaio di Giacomo Leopardi: guardava, nella sua solitudine, “dalle finestre di questo albergo ove abitai fanciullo”, in compagnia delle migliaia di libri accumulati dal padre Monaldo: proprio lui aveva intuito il genio nel gracile corpo di suo figlio.
A contrapporsi, simbolicamente, all’immagine dei “sette anni di studio matto e disperatissimo” del poeta di Recanati, c’è l’immagine del liceale del terzo millennio, chiuso nella sua casa, con una finestra-schermo del computer aperto all’infinito sui generis del mondo virtuale (internet), durante i mesi appena trascorsi. Grazie al cielo, gran parte degli adolescenti di oggi fanno molto sport e godono di ottima salute, ma che cosa è successo, in questo tempo di coronavirus, che non potremo dimenticare? Hanno (forse) imparato qualcosa con la didattica a distanza che si è andata sviluppando in epoca di emergenza, mentre sono – giustamente – saltate tutte le gite, e con esse un altro pezzo dell’immaginario collettivo è stato sottratto agli alunni in questo anno scolastico particolare.
Niente di grave, rispetto ad altre più sostanziali criticità. Ma c’è anche questo. Basterebbe rivedere un vecchio film di Pupi Avati del 1983, dal titolo evocativo del nostro passato da studenti: Una gita scolastica. Essa è forse proprio il momento in cui nella nostra psiche si realizza quel “diletto che è sempre vago e indefinito”. Nel film di Pupi Avati, Laura, un’anziana signora di ottanta anni, richiama alla sua memoria il più bel ricordo della sua vita: una gita scolastica, nel 1914, a piedi da Bologna a Firenze, attraverso gli Appennini, poco prima che si svolga l’esame di maturità. Si tratta di una classe mista di trenta alunni, accompagnata dal professore di italiano e dalla professoressa di disegno. Laura non è la più carina della classe ed è segretamente innamorata del ragazzo più bello, conteso da tutte le altre. Durante la gita i ragazzi parlano dei loro desideri, dei loro sogni, delle loro aspettative per il futuro. Un po’ come Silvia, cantata dal Leopardi: “Sedevi, assai contenta/ Di quel vago avvenir che in mente avevi”. La gita si svolge alla vigilia dello scoppio della prima guerra mondiale, quando il “secolo breve” stava per concludersi, spazzando via tutte le certezze ottocentesche. Ma come in una commedia plautina, con toni da commedia sexy degli anni Settanta, avviene il triangolo amoroso: il prof. Balla, da sempre molto timido con le donne, riscoprirà i suoi sentimenti con un innamoramento per la collega di disegno, Serena, che però avrà un’attitudine ambigua fino al termine della gita. Ma ecco il colpo di scena, peraltro già utilizzato in un romanzo di Edmondo De Amicis, Amore e ginnastica: Serena ha un affaire con il bello e dannato della classe, e ciò solleverà uno scandalo di cui si occuperà personalmente il signor preside al ritorno dalla gita. Laura – anziana nonnina del film di Pupi Avati – ricorda il suo goffo tentativo di conquistare il più bello della classe, ma invano. Prima di prendere il treno che li riporterà a casa, il prof. Balla, applicando il Regolamento, fa l’appello (altro rito della nostra memoria scolastica), e Laura fa una riflessione a se stessa: “Eravamo tornati: sapevamo che l’incanto di quella gita ci avrebbe abbandonato per sempre”.
L’incanto è “quel diletto è sempre vago e indefinito” di cui parla Leopardi. Chi ha finito il suo percorso scolastico con una maturità targata “Covid-19” ha passato il testimone, idealmente, come in una maratona che è la vita, non tanto agli studenti che frequentano nell’a.s. 2020/2021 la quinta, ma ai ragazzi appena usciti dalle medie, che sono chiamati in gergo i “primini” o più affettuosamente i “piccoli” del quinquennio. L’estate, la stagione estiva, ha fatto da spartiacque tra la prigionia delle medie (o delle superiori) e la libertà di sentirsi più grandi o adulti al liceo oppure all’università.
“L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante” scriveva Cesare Pavese ne Il mestiere di vivere. Ecco, io, come docente, ho sentito la “gioia” di ri-cominciare la scuola, anche se parlo da una mascherina e non ho potuto vedere il sorriso degli studenti, bardati pur mantenendo la distanza tra le rime buccali. Sarebbe bello ritornare, pandemia permettendo, a rifare le gite scolastiche, non solo per stare insieme, ma anche per aiutare l’economia dell’Italia; ammesso che visitiamo, come si dovrebbe, le bellezze del nostro paese o – meglio – della nostra patria.