Non sembrano placarsi le onde intorno alla questione dell’insegnamento letterario nelle scuole: non è proprio tempesta, magari maretta, ma certo non si vede bonaccia. Nessuno pretende che la bonaccia sia preferibile – anche se ci si può chiedere se il logorio cui è sottoposto un insegnante, sempre sull’orlo della delegittimazione, non nuoccia infine soprattutto agli allievi –; conta chiedersi, piuttosto, se tanto agitarsi generi approfondimenti adeguati al peso che tutti dichiarano di assegnare alla questione o produca solo schiuma.



Tra i bersagli polemici favoriti, il primo posto va aggiudicato alla criticatissima storia della letteratura, di cui si parla, generalmente, come se nelle scuole essa godesse ancora di ottima salute e non fosse uscita dalle traversie degli ultimi decenni più indecorosamente e lacrimevolmente sbrindellata delle “tre donne intorno al cor” di dantesca memoria. In compenso, stracciata e svilita, è presente dappertutto, nelle medie inferiori e in tutti gli indirizzi della secondaria di secondo grado, dove, grazie a una recente disposizione di legge, è prescritta anche nell’ultima parte del biennio.



Storia della letteratura dappertutto, dunque, dappertutto ai minimi termini, dappertutto fastidiosamente ingombrante. È concesso sottoporre a critica questa ubiquità? E domandarsi se molti dei problemi dell’insegnamento della storia letteraria non dipendano proprio dalla pigrizia mentale per cui si prescrive a tutti la stessa dieta?

Diciamolo, allora, quello storico è solo uno degli approcci possibili al testo letterario e, prima ancora di discuterne il valore, chiariamo che non deve in nessun caso essere il primo. Si tratta di un approccio riflesso, diciamo pure meta-cognitivo, quasi privo di senso, e anzi tale da indurre in errore, se adottato nel vuoto, senza essere mai stati lettori. E dunque come si giustificano i bigini di storia letteraria allegati alle antologie delle medie inferiori?



Non si giustificano, come non si giustificano i capitoli di teoria letteraria di derivazione all’ingrosso strutturalista (quanto, e quanto presto invecchiati!), le scelte rigidamente impostate per generi, con tanto di inquadramento teorico, gli elenchi di figure retoriche, e si potrebbe continuare. Tutto ciò è assurdo per chi non ha ancora letto niente, e invece di introdurre allontana. Si può leggere Omero, alle medie, senza far parola della questione omerica. Si può rimandare la questione omerica e le sue spine ad altro tempo, senza danno; ma un ragazzino che, annoiato a morte o frustrato da nozioni astruse, non si gusta e non trattiene Achille, Ettore, Ulisse, ha perso qualcosa.

Si può leggere… Già, ma chi deve leggere? L’insegnante, senza dubbio. È all’insegnante che tocca la lectio, a voce alta, con la giusta espressione: è quella, in senso proprio, la lezione , capace di veicolare di per sé l’interpretazione, di far parlare il testo, riducendo la necessità di commenti e spiegazioni.

In questa prospettiva si ridimensiona anche l’altra annosa polemica, quella relativa alla lezione frontale, che trova qui la sua inderogabile necessità. La letteratura, prosa o poesia, non è solo scrittura e non è solo lettura silenziosa: è voce, ritmo, musica. La parola che dice tanto e lo dice bene, offrendo la fondamentale esperienza della comunione (non identità, non commistione) di ragione e bellezza, non può essere abbandonata alla lettura stentata o inesperta degli allievi. E nemmeno affidata sistematicamente a sussidi audiovisivi: è dell’insegnante il compito di fare da tramite, in primo luogo testimoniando, con la sua voce e il suo corpo, l’esistenza di un rapporto vitale col testo, il permanere di un’interrogazione, l’affacciarsi di una risposta mai definitiva, in altre parole, la rilevanza umana del patrimonio letterario.

Solo in rapporto a questo primo assumono senso e plausibilità i successivi passi: imparare a propria volta a leggere bene, commentare, rielaborare a voce e per iscritto, assimilare parole e frasi per dire se stessi e leggere gli altri e il mondo un po’ meglio. Ma tutto questo deve venire dopo, dopo aver fatto l’esperienza di una comunicazione non riducibile alla mera funzionalità, e quindi della non riducibilità propria e altrui. Altrimenti la didattica più attenta e rigorosa farà anche della letteratura un manuale di istruzioni e della scuola un puro tirocinio di adattamento. È perfino ovvio che tutto ciò può essere esperito dall’allievo anche al di fuori della scuola, come anche che alla proposta può non seguire una risposta adeguata. Resta però il fatto che questa proposta è per tutti un diritto, e che la scuola dell’obbligo esiste proprio per tutelarlo.

L’allievo, insomma, dovrebbe arrivare al triennio superiore avendo già un piccolo patrimonio di testi noti: qualcuno letto per intero, qualcuno rapsodicamente; e, a questo proposito, non sembra ragionevole demonizzare la lettura antologica: è evidente che a scuola non si può leggere sempre integralmente. La scelta antologica è una necessità ma anche una virtù. Altrimenti dovremmo rifiutare anche la scelta antologica del lezionario liturgico, per dire. Chi si sentirà di sostenere che non serve a nulla leggere le beatitudini o il racconto della Passione se non si sono letti integralmente i quattro Vangeli? Anche antologizzare è un’arte. Tutto dipende dalla sensatezza del criterio prescelto, dalla vigilanza con cui, insieme alla coerenza di un percorso, si preserva il senso della sua parzialità, del suo carattere introduttivo e non esaustivo.

E per quanto riguarda propriamente la storia della letteratura? Già si è detto che non sembra essenziale adottare questa particolare prospettiva prima del triennio superiore (anche per non passare agli studenti l’idea che essa rappresenti l’unica possibile); ma nel triennio superiore l’insegnante dovrebbe poter contare per l’appunto sul piccolo patrimonio di letture pregresse di cui si diceva; e dovrebbe poter contare anche su un’altra cosa, ovvero sull’acquisita abitudine alla lettura autonoma. Sono queste le condizioni che rendono praticabile e sensato il disegno di un profilo storico complessivo, la cui plausibilità metodologica è difficilmente negabile, dato il carattere di istituzione culturale che tutti riconosciamo alla letteratura.

Il contraccolpo esistenziale si fa giustamente più mediato, attraverso il filtro dei diversi contesti culturali e il gioco di imitazioni, citazioni, riprese, innovazioni. Attraverso la presa di coscienza dell’importanza, in ogni tempo, di quella che possiamo chiamare “officina”, della folla di “minori” senza i quali non si produce il capolavoro che poi ha la forza di brillare isolato.

Tutto ciò, d’altronde, non rende la storia della letteratura di per sé adatta ai trienni di qualunque indirizzo. I diversi contesti possono richiedere e suggerire scelte diverse, sulle quali sarebbe forse ora di ragionare, smettendo di apprestare e adottare con sfiduciata stanchezza gli stessi libri per tutti. L’educazione alla parola letteraria è un diritto di tutti, lo studio della storia della letteratura può non essere un dovere di tutti.

Perché se ai ragazzi ancora si chiede di scegliere tra percorsi diversi, poi la loro scelta va rispettata, in primo luogo chiamandoli a una verifica più rigorosa e impegnativa sulle discipline che di quella scelta costituiscono l’oggetto principale. E, proprio per questo, somministrare striminziti bigini o rinunciare a una certa completezza del panorama nelle scuole di orientamento umanistico significa tradire gli allievi. Anche perché, diciamocelo, un allievo che ha scelto una scuola umanistica e non legge niente per conto suo ha semplicemente sbagliato strada. Perché è verissimo quanto ha scritto pochi giorni fa su questo giornale Valerio Capasa: la libertà personale può essere sostenuta e aiutata, ma a un certo punto deve scattare, non c’è fantasia metodologica che possa sostituirla.

Infine, tornando davvero alla realtà, bisogna avere il coraggio di dire che essa è quale la rappresenta con intelligente umorismo un recente articolo di Gianluca Zappa: la scuola non c’è più, evaporata tra i mille progetti di varia provenienza; le materie servono a riempire i buchi, ma non devono dare fastidio. L’insegnante può avere idee ottime e chiarissime, ma è ormai espropriato del tempo ufficialmente assegnatogli, un tempo sempre più ridotto e bucherellato, in cui è difficile inserire qualcosa di più di una serie di spot.

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