“Generazione perduta” è un’espressione coniata dalla scrittrice americana Gertrude Stein e resa popolare da Ernest Hemingway in Fiesta. Il sole sorgerà ancora del 1926, che designa quella generazione di giovani, nati poco prima dell’inizio del Novecento, che entrarono nella maggiore età durante la Prima guerra mondiale e vissero per il resto della vita segnati da quella esperienza. Alcuni osservatori delle vicende scolastiche di questi mesi vi sono ricorsi per denunciare i gravi rischi connessi alla sospensione delle lezioni in presenza che ormai durano da circa un anno e purtroppo non sembrano terminare.
Secondo ricerche compiute in vari paesi (in particolare Olanda, Francia e Stati Uniti) l’interruzione delle attività scolastiche della primavera scorsa avrebbe comportato un gap formativo stimato in un range dal 35 al 50% in matematica e nella propria lingua rispetto agli studenti degli anni prima allo stesso punto del programma, con variazioni in base al grado di scuola: peggio al primo ciclo, un po’ meglio alle superiori. Carenze destinate a pesare sulla prosecuzione degli studi e, a parere di alcuni, addirittura anche in grado di condizionare la collocazione futura nel mondo del lavoro. Senza contare, si fa infine notare, quanto si è perso con la didattica a distanza (Dad) sul piano delle relazioni e della socialità.
Anche se ci troviamo di fronte ad una realtà molto seria l’espressione «generazione perduta» mi sembra francamente più di effetto che realistica. Per quanto sia grave la perdita di apprendimento accumulata nell’ultimo anno negli istituti superiori (negli altri anni scolastici l’attività prosegue più o meno linearmente) non credo che siamo di fronte a una catastrofe paragonabile al contesto in cui l’espressione fu coniata. Al momento mi sembra più prudente parlare di una generazione smarrita.
Se non vogliamo che la situazione peggiori verso l’abisso dell’ignoranza diffusa è venuta l’ora di interrogarci se non sia opportuno, in ogni caso, di mettere in campo una robusta strategia per contenere le conseguenze dell’anno praticamente perduto. Lo dico pensando ai soggetti più deboli, più pigri, più furbi, meno seguiti dai genitori, mal collegati alla rete e a quelli che affollano i locali prima delle 18 in cerca della socialità perduta a scuola, preferibilmente senza mascherina.
È ormai del tutto superfluo continuare a sottolineare i limiti delle scelte compiute dal ministero dell’Istruzione e giocate su un’unica carta: sperare che il Covid-19 desse un po’ di respiro e consentisse una certa regolarità delle lezioni in presenza. I dati della pandemia sono sotto gli occhi di tutti e dicono che questa ipotesi è traballante se non del tutto tramontata. Da qui a giugno è facile prevedere un rincorrersi di aperture e chiusure con le vaccinazioni del personale docente in ritardo sui tempi previsti. Non solo, non è escluso che ci si affacci al nuovo anno con la spada di Damocle di una pandemia non ancora debellata. L’unico rimedio sarà di nuovo e solo la didattica a distanza?
A giudizio di molti insegnanti e osservatori esterni non basta tenere aperte le scuole (ovviamente meglio aperte che chiuse), ma urgerebbe predisporre finalmente una serie di misure compensative per a colmare le lacune accumulate in questi mesi. Luisa Ribolzi ha avanzato in proposito una serie di proposte molto pertinenti e più convincenti di quanti hanno ipotizzato il prolungamento dell’anno scolastico nei mesi estivi: individuazione personalizzata delle lacune, pianificazione di un percorso ad hoc, stabilità dei docenti per due/tre anni per creare le condizioni che il recupero si svolga nella continuità didattica (sempre che i sindacati non si mettano per traverso).
Temo che queste buone intenzioni – ammesso che si traducano in azioni concrete – lasciate nella sola responsabilità degli insegnanti non sortiscano gli effetti sperati. Dico questo non perché i docenti non siano in grado di gestire programmazioni personalizzate, ma perché l’intervento di recupero dovrebbe essere di più vasto respiro e andare oltre il ripristino delle conoscenze/competenze perdute ed essere rivolto anche ad alcune non cognitive skills come la rimotivazione allo studio, il recupero dell’esercizio metodico della volontà, la continuità a rispettare gli impegni. Ritengo, poi, che ogni azione di recupero sia molto condizionata dalla capacità di collaborare tra famiglie e scuola. Si tratta, in altre parole, di predisporre per gli alunni più a disagio o tentati di approfittare della situazione un accompagnamento personalizzato da gestire su più piani.
In questa prospettiva potrebbe essere utile ricorrere al fiancheggiamento degli insegnanti da parte di altre figure educative (per esempio educatori) che agiscano molecolarmente tra i giovani, evitando che – nei casi più gravi – abbandonino la scuola e che, nelle situazioni meno compromesse, accompagnino gli studenti a reinserirsi positivamente nella vita scolastica e a recuperare delle lacune maturate durante il lockdown. Se anziché spendere i soldi per i banchi a rotelle (che adesso giacciono inutilizzati in molti magazzini) si fosse pensato a reclutare qualche migliaio di educatori tanti studenti non sarebbero oggi allo sbando. Siamo ancora in tempo ad evitare che una generazione smarrita scivoli verso una generazione perduta.
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