Prima o poi dobbiamo chiedercelo, senza ipocrisie. Chi sono i protagonisti? È questo il reale problema dell’esame di maturità.
Per quanto ormai si cambi freneticamente il medicinale da assumere ogni due o tre anni, la malattia rimane. Si chiacchiera molto sul “mettere al centro i ragazzi”, ma nella pratica i primattori restiamo noi, gli insegnanti. È un gioco delle parti, un girotondo senza fine, in cui si rischia che gli studenti finiscano ad essere ruote di uno sterile ingranaggio, vittime di uno spietato meccanismo. Fortunatamente non sempre accade tutto questo, a volte si ha (ed ho avuto) la fortuna di vedere professori, interni ed esterni, in grado di accompagnare e valorizzare un intenso e affascinante cammino di cinque anni. Ma, perlomeno quest’anno, tanti, troppi esempi mi conducono al disincanto.
Ogni docente impegnato in una (o più) commissioni d’esame potrebbe portarne a decine.
Il menù di questo pranzo di gala comprende come primo piatto commissari il cui unico fine è affermare la superiorità del proprio insegnamento su quello altrui, per cui si sentono in dovere di dare insufficienze al 50 per cento o più delle prove che si trovano a correggere. Come se, quand’anche i ragazzi avessero avuto davvero un pessimo insegnante di italiano o matematica per anni, stroncare proprio lì, alla fine del percorso, servisse a qualcosa.
Per secondo, con contorno, abbiamo orali in cui la paranoia che “abbiano studiato a memoria solo un pezzo del programma e ce la rifili” (citazione reale), riconduce il colloquio a un sistematico rifiuto dei collegamenti proposti dai candidati, per ricadere in una bieca interrogazione il cui solo e malcelato fine sia cogliere una falla nella loro preparazione. Come se, arrivati primi in questa gara nello scovare punti deboli, tronfi e soddisfatti, salissimo sul gradino più alto di un ipotetico podio e vincessimo un premio.
O come se noi, al posto loro, con davanti una immagine spesso volutamente più criptica e ambigua possibile, fossimo in grado di cavarcela effettivamente meglio di quanto siano in grado di fare loro.
Invece della carne volete del pesce? Eccovi serviti: in un caldo asfissiante, senza climatizzatori o anche solo ventilatori, astrusi calcoli e medie per non scontentare nessuno e dare allo studente un punteggio corrispondente al centesimo alla media dei suoi voti, senza dare spazio alla positiva sorpresa di qualcuno che, all’ultimo, dà l’anima e sorprende o di qualcun altro che, purtroppo, inciampa proprio sul nastro del traguardo.
Come se i voti pubblicati sul tabellone siano stati già decisi a ottobre, anziché a luglio. Allora, forse, hanno ragione le università, che tanto innervosiscono gli insegnanti delle superiori per questo, a fregarsene dei voti di maturità e anticipare i propri test di ingresso a febbraio (o addirittura permettere ai ragazzi di quarta di affrontarli).
E che dire dei percorsi di Pcto, esperienze di vita anche sorprendenti, anche portate avanti tra mille difficoltà, che, spesso mentendo e sapendo di mentire, chiediamo che spieghino con articolate presentazioni? Come se, tanto, non sapessimo già che gli dedicheremo null’altro che uno striminzito angolino dell’orale, a cui prestare al più un distratto orecchio, mentre guardiamo con impazienza l’orologio e con il voto della prova già deciso.
E per finire con un sorbetto (o con un amaro?), abbiamo una serie di orpelli burocratici infiniti, verbali su ogni virgola con cento firme da fare, con il terrore di un ricorso che come un ago ci pungola la nuca e che ci rende, invece che di più, il meno veritieri possibile sul reale andamento dell’esame, dei suoi litigi, delle sue lotte intestine. Come se, con quelle carte, volessimo dare l’impressione di un idilliaco quanto artefatto prato in cui spuntino rose e viole, mentre in realtà si è trattato di una lotta tra gladiatori nell’arena.
Tutto questo, signori, è la maturità. Ci sarebbe da chiedersi cosa ci sia di “maturo” in tutto questo.
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