Avete mai corretto un compito in classe di italiano? Avrete notato che tra la terza media e il biennio delle superiori l’“errore” più generalizzato e ricorrente (certamente oltre ad alcune imprecisioni ortografiche) è sempre lo stesso. I ragazzi non usano più il nome di ciò che intendono indicare. Definiscono tutto con “cosa” e “cose”.



Quante volte ripetiamo che non possono riempire i loro fogli protocollo di “cose”! Niente da fare, persistono. “Dopo avergli detto questa cosa…”, “Le cose che mi colpiscono maggiormente…”, “Questa cosa mi fece soffrire molto…”, “Diverse cose caratterizzano questo testo…”, “Dopo le cose che ho scritto, vorrei proseguire rivolgendomi a…”. Insomma, è una partita quasi sempre persa. Le cose stanno sempre lì, dietro l’angolo, in agguato. Non appena lo studente si distrae per un attimo, oppure quando è preso dal flusso dello scrivere, dall’espressione fluida dei pensieri, tac! ecco che ricompare “la cosa”, senza che egli neanche se ne avveda. E noi prof a segnare tre, cinque, dieci, quindici “cose” per ogni svolgimento.



Quale motivo può esserci all’origine di questa “stortura”, “devianza stilistica”, “cattiva abitudine” (o, vogliamo dire, di questa “cosa”)? Tento di rispondere, ma mi interessa di più aprire la questione. La percezione dei ragazzi in questo momento storico sicuramente tende ad appiattire la realtà in un omogeneo panorama in cui fatti, volti, diversità, colori, gusti, sfumature diventano un unico orizzonte grigio. Le diverse realtà certamente esistono, ci sono, ma i giovani non ne sentono più la presenza. La scorsa primavera, viaggiando in auto attraverso le campagne marchigiane, fui colpito dalla figura di un monte che si stagliava in mezzo ai raggi di sole che lo illuminavano in tutte le sue parti. Mi sono fermato un attimo, mi sono chiesto se i miei alunni avrebbero visto questo spettacolo, passando da lì. Probabilmente non avrebbero visto nulla, pur passandoci dentro, tanto gli occhi non riescono più a fermarsi sulle meraviglie che la natura presenta. Così è per la denominazione delle realtà. Tutto è uguale, tutto è esterno alla loro coscienza. Nessuna presenza parla, niente sentono proprio, ma un filo di estraneità lega tutta la realtà in un enigma straniero al loro cuore. Tutto – volti, luci, alberi, cieli, orizzonti, grattacieli, aerei, buio, ombre, sentieri, nuvole – tutto diventa “cosa”, la stessa medesima “cosa”.



Per ridestare il nome, perché risorga la parola piena e viva, occorre solo un amore, un’attrattiva. Un carissimo ragazzo a cui tanti anni fa insegnai il catechismo per la cresima, oggi uomo, grande esperto di meccanismi elettronici complessi (orologi di torri comunali) e sistemi di suono delle campane, ogni volta che mi mostra un suo nuovo congegno mi riempie di stupore (lui stesso si stupisce). Ogni piccola parte del sistema ha un suo preciso scopo, ha un suo ruolo nel tutto, ha un suo nome soprattutto. Tutti quei piccolissimi aggeggi sarebbe facilissimo chiamarli “cose”. Ma per lui non lo sono, tanta è la passione che dai primi tempi l’ha mosso a crearsi quel mestiere, a vivere e lavorare sui campanili e le torri, attaccato al cielo e alle nuvole passeggere.

L’amore ridesta il nome. Come scrive anche Massimo Recalcati: “L’amore è sempre amore per il nome; ciò significa che l’amato è amato solo nella sua singolarità irripetibile, per il suo nome proprio, irriproducibile, unico, insostituibile”.

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