Gli esami di maturità (mi piace chiamare ancora in questo modo l’unico appuntamento che, nell’età dell’adolescenza, mantiene qualche connotato che lo assimila ad un rito di iniziazione) sono finiti da tempo, per cui la mia è una riflessione come si suol dire “a bocce ferme” che, visto il periodo, possono benissimo essere quelle che si usano in spiaggia.
E così mi permetto di sorridere delle rivendicazioni fatte a suo tempo dal movimento studentesco per ottenere un esame di Stato bilanciato rispetto agli ultimi anni di didattica a distanza, per due motivi ben distinti.
In primo luogo perché è prevalsa ancora una volta una certa logica contrattuale (di ispirazione sindacale?) che ha cristallizzato le due parti (studenti e insegnanti) contrapponendole, mentre sono certo che – accanto a una certa inerzia da parte del mondo adulto a trattare i ragazzi come recettori passivi di un sapere preconfezionato da restituire sottoforma di prestazione risaputa (e, per questo, annoiante) – esistono realtà fatte di vere e proprie alleanze tra le parti. Comunque sia in un caso (per quieto vivere), sia nell’altro (per conoscenza e stima reciproca), nessuno si sarebbe mai sognato di usare l’appuntamento finale del ciclo di studi superiori come spauracchio punitivo penalizzante. E in questi ultimi anni i numeri delle promozioni e dei 100 lo stanno a dimostrare.
La seconda istanza, tuttavia, è la più interessante: nulla ha impedito (o avrebbe impedito nel caso di un esame senza correttivi) che questo momento potesse essere vissuto appieno dai ragazzi e, di riflesso, dai docenti. Questa cosa a me è capitata: le correzioni degli scritti con l’attesa del guizzo, o della riflessione personale per quanto semplice fosse, ma che lasciava trasparire in filigrana un confronto con un tema, un autore, un’idea; il colloquio in cui – chi più, chi meno – tutti hanno dovuto prendere coscienza che i saperi tendono a intersecarsi perché l’uomo che li produce è “uno”; tutto ciò ha fatto sì che il tempo volasse. Di fronte ad una comunicazione di sé, anche se apparentemente stereotipata, non ci si può annoiare.
Da questo punto di vista ancora una volta la rigidità con cui si è stabilito che il colloquio non dovesse oltrepassare sessanta minuti, ha rischiato, e qualche volta ci è anche riuscita, di mortificare il momento privilegiato dell’esame. Durante un colloquio, ironia della sorte, si stava discutendo del concetto di tempo in Bergson e della distinzione tra tempo geometrico e tempo come durata. “Ci stiamo mettendo troppo tempo. Non sforiamo l’ora a disposizione, per favore” interviene, piccata, la presidente di commissione, rompendo la sacralità di quel momento irripetibile soprattutto per il ragazzo e ricordandomi in modo implicito (senza volerlo) che, in fondo, la forma dell’esame di Stato è quella della catena di montaggio.
Mi rimane la domanda: come riformare questo esame in modo tale da esaltare i caratteri di quello che, per gli studenti, rimane un vero e proprio evento, talmente unico e irripetibile da essere ricordato per sempre?
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