Mi colpisce la paura di dire io, sempre più evidente, nella scuola.
Quando si studiano i poeti, Leopardi, Ungaretti… è incredibile – e innaturale – la cesura che si opera tra l’autore dei versi e la sua esistenza, tra l’opera e la vita, come se la scrittura avesse un proprio essere (in parte certamente è così) rispetto alla quotidianità della persona che scrive.
A scuola si insegna la struttura della poesia bloccandola dentro una gabbia di note a piè di pagina e di analisi retoriche, si strappa la poesia dal tessuto vitale rendendola quasi un mostro, costruzione cerebral-intellettuale di accademici dediti alla compilazione di antologie in cui i testi sono divisi per genere, contesto, figure retoriche, tematiche, parole chiave, argomenti….
La conseguenza è lo staccarsi della passione dello studente dai testi stessi (su questo rimando a Davide Rondoni, Contro la letteratura. Poeti e scrittori. Una strage quotidiana a scuola).
A scuola si studiano L’infinito, La ginestra, Soldati, Veglia, come se queste liriche sorgessero dal nulla, da un imprecisato humus fatto di metro, misure, rime, figure, insomma come se in realtà non le avesse scritte nessuno.
Tutti conosciamo i versi dell’ermo colle o dell’illuminarsi d’immenso.
Ma nessuno conosce – o racconta – del Giacomo che fa di tutto per diventare famoso e celebre, che – una volta “scappato” finalmente a Roma dalla dipinta gabbia di Recanati – scrive al fratello Carlo che anche lì, nella città eterna proprio come nel natio borgo selvaggio, le ragazze non te la danno. Nessuno dice di Ungaretti che a ottant’anni perse la testa per una poco più che ventenne poetessa brasiliana, Bruna Bianco.
In tutte le antologie leggiamo il Pasolini dei Ragazzi di vita. Ma dei suoi amori contrastati e della sua diversità nelle aule non si parla.
Perché?
Si ha paura dell’umano, dell’io. L’io è contraddizione, terreno infuocato, sabbie mobili. Per parlarne ai ragazzi, occorre vivere il proprio fino in fondo. Una familiarità, una non reticenza a guardare come si è veramente. A considerare le proprie domande e le proprie esigenze fondamentali, il percorso della propria ricerca, delle evidenze raggiunte. La possibilità di un’apertura continua ad imparare.
La poesia nasce proprio da questa lava infuocata, sempre in movimento. Da questo terreno di contraddizione. Non è un algoritmo derivante da studi esatti, coerenti e analitici della versificazione e dei suoni.
Togliendo di mezzo il caos dell’umano cosa resta della poesia? Come si può illuminare un verso, una strofa, uno scritto? Resterebbero – come in effetti accade nelle scuole – soltanto le larve, gli scheletri, i detriti delle ultime conseguenze di un procedimento che resterà sconosciuto e privo di vitalità. Soprattutto privo di un perché esistenziale.
Un esempio: le novità dell’esame di Stato negli ultimi anni.
Gli studenti devono scegliere le domande da tre buste (come nel famoso quiz di Mike Bongiorno, la 1, la 2 o la 3?). Si fa così per essere neutrali, imparziali, nell’interrogazione. Si evitano altre domande da parte del prof esaminatore.
Praticamente viene fatto fuori il dialogo, l’interazione, la possibilità di approfondire.
Di dire, in tal modo, chi si è. Cosa si pensa. Cosa si vive.
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