Negli ultimi anni si è fatta più frequente e più aspra la critica a diversi aspetti della scuola che si considerano superati; e tra questi l’interrogazione. Di per sé non è certo un male che la tradizione, in tutti i campi, venga sottoposta a verifiche e revisioni. È anzi un tratto fondamentale della cultura europea quello di sapersi via via rinnovare mantenendo vive le sue conquiste. Purché non lo si faccia basandosi sulla caricatura di ciò che vogliamo mettere in discussione e proponendo alternative credibili. Non sempre è così. Qualche esempio:



– così si è espressa in un convegno la presidente di un’associazione professionale: “Come godiamo noi insegnanti quando sentiamo ripetere parola per parola quello che abbiamo detto!”;

– tra le ragioni di una petizione che gira su internet da qualche anno contro i compiti a casa si legge tra l’altro: “Le nozioni ingurgitate attraverso lo studio domestico per essere rigettate a comando (interrogazioni, verifiche…) hanno durata brevissima”. Ma allora quando si studia?



– una docente sulla pagina Facebook del Gruppo di Firenze propone un’alternativa: “Interrogare uno studente non consiste nel contare [!] le nozioni che ha acquisito, ma nel vederlo muoversi nelle nozioni, elaborarle, criticarle e apprezzarle, sentire il suo parere, argomentare con lui, se è il caso discuterle e eventualmente contestarle”. Vasto programma che, enfasi a parte, può essere perseguito solo sulla base di solide conoscenze;

– anche nel blog di un docente non si vede di buon occhio l’interrogazione: “In fin dei conti, far ripetere informazioni è la modalità meno efficace per consentire ad uno studente di rappresentare ciò che ha imparato, per far vedere all’esterno la propria conoscenza. Con la classica interrogazione si valuta poco ed in modo incompleto”;



– infine, si può intuire già dal titolo che aria tira in un articolo dell’aprile scorso sul Sussidiario (che con grande apertura pubblica opinioni anche molto diverse sulla scuola): Bisogna ripartire dai character skills o vinceranno i “trombetti”. L’espressione deriva da un pensiero di Leonardo da Vinci: “Chi tiene la pagina davanti agli occhi in modo da vedere solo quella, non può più vedere la natura e intenderne le leggi”. In questo modo, aggiunge, si diventa “recitatori e trombetti delle altrui opere”. Parentesi: la citazione è poco appropriata, perché Leonardo non ironizzava su “studenti e docenti che si fermano alla superficie dell’oggetto”, ma (ingenerosamente) sugli intellettuali della sua epoca che si rifacevano ai grandi autori dell’antichità, Platone in particolare. Leonardo, che era autodidatta (salvo che in pittura), era comprensibilmente portato a esaltare la conoscenza basata sull’esperienza contro quella, per così dire, astratta. Chiusa parentesi.

All’umoralità, alla vaghezza o alla pretenziosità di molte di queste critiche si può rispondere prima di tutto che non c’è un solo modo di interrogare; e che da decine di secoli lo studio individuale è fondamentalmente basato sulla lettura, la comprensione e la memorizzazione di testi scritti. E che sottolineare, annotare, prendere appunti, aiutarsi con schemi o sintesi, farsi delle domande, provare a ridire quello che si è letto, sono i metodi che più o meno tutti hanno usato per impossessarsi di un argomento (e niente di tutto questo si può definire “ingurgitare”). Esporre il pensiero di un filosofo, la dimostrazione di un teorema, le cause, le origini o le conseguenze di un evento storico non significa di per sé “ripetere a pappagallo” quello che si memorizza. L’espressione è appropriata solo quando si capisce che lo si sta facendo senza comprendere quello che si dice. Ma di norma è anche un esercizio di grande utilità per padroneggiare e arricchire l’espressione orale.

Insomma, capire ed esporre con parole proprie, arricchirsi di conoscenze e punti di vista da mettere in relazione è la base su cui si può – gradualmente – costruire la capacità di “muoversi nelle nozioni, elaborarle, argomentare” e solo dopo esprimere fondatamente, se è il caso, un proprio parere.

Ma non si deve incoraggiare un superficiale opinionismo, già patologicamente diffuso in rete, dove viene spessissimo ignorata, anche senza arrivare al terrapiattismo, la distinzione tra fatti e opinioni. Proprio in merito a quella che chiamava “cultura della supponenza”, anni fa Claudio Magris raccontò sul Corriere della Sera un episodio della sua esperienza di liceale che considerava una lezione di umiltà, certo agli antipodi delle tendenze di cui sopra. Interrogato sul pensiero di un filosofo, il futuro germanista iniziò con un “Penso…”, ma fu immediatamente bloccato dal professore che esclamò: “Come osi pensare, Magris? Lìmitati a esporre!”.

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