Subissati dai dati di contagi, percentuali di vaccini, tamponi e positività, rischiamo di perdere di vista altri numeri altrettanto urgenti e latenti da anni. Secondo una delle ultime indagini dell’Istituto superiore di sanità un bambino su due non fa una colazione adeguata al mattino, uno su quattro mangia frutta e verdura meno di una volta al giorno, i legumi quasi non rientrano nella dieta settimanale. Ancora, un bambino su 5 non fa attività fisica regolarmente, più del 70% non raggiunge la scuola a piedi o in bici, la metà dei bambini presi in esame trascorre 2 ore al giorno davanti a tablet, cellulare o Tv. Infine, i dati evidenziano come l’Italia sia “tra i paesi europei con i valori più elevati di eccesso ponderale nella popolazione in età scolare con una percentuale di bambini in sovrappeso del 20,4% e di bambini obesi del 9,4%, compresi i gravemente obesi che rappresentano il 2,4%”.
Dalla lettura di questa fotografia, non certo rosea, del panorama italiano, sorge una domanda: che ruolo ha o può avere la scuola primaria? In che modo la struttura odierna della scuola primaria italiana può contribuire a far cambiare la tendenza di questi dati sempre più “neri”? La questione che si apre è davvero ampia e multisfaccettata e la pandemia ha aggravato questo quadro generale.
A favore delle scuole primarie si può asserire che negli ultimi anni è notevolmente aumentata l’attenzione verso una sana e corretta alimentazione che incentivi stili di vita più salutari. Sono molteplici i progetti in merito, ma è sufficiente? Sono presenti anche progetti che favoriscono il raggiungimento degli edifici scolastici a piedi o in bici. La grande assente, però, o la “poco presente” e spesso delegata, è l’educazione fisica come materia curricolare svolta in modo da inserirsi all’interno di una didattica condivisa.
L’Italia è uno dei pochissimi paesi europei in cui le ore (perché son due e non ridotte a una quando va bene o quando non diventano il “premio” per essersi comportati bene) di educazione fisica nella scuola primaria non vengono affidate a un esperto, laureato in Scienze dello sport (o lauree magistrali del settore), docente curricolare al pari di qualsiasi altro docente dell’istituto. Quando va bene sono affidate a progetti promossi dal Coni e dal ministero o ad esperti che le famiglie (che possono permetterselo) pagano autonomamente, quando c’è la possibilità vengono affidate ai tecnici dei vari sport delle associazioni sportive del territorio (che usano tale prestazione come attività di promozione sportiva), quando è possibile vengono affidate ad una docente curricolare, quando va male la palestra non c’è, manca qualsiasi progetto oppure la classe non si guadagna “il premio” di andare in palestra a “sfogarsi” un po’. Oppure, come da ultime disposizioni, viene proprio sospesa l’ora di educazione fisica in palestra a causa dei contagi, come se non fosse possibile ipotizzare la capacità dei docenti di fare una proposta che garantisca i distanziamenti richiesti e che segua le normative (compatibilmente con spazi e numeri).
In Italia ancora non si è radicata questa cultura e le ripercussioni ad ampio raggio sono i numeri sopracitati, ma non solo. Le conseguenze per questa mancata possibilità di un intervento interdisciplinare programmato, valutabile e trasferibile nella quotidianità, toccano vari ambiti della crescita del bambino: una proposta motoria fine a se stessa, spesso poco programmata e integrata con le altre discipline, una proposta motoria che non sempre va a fornire stimoli che investano tutte le capacità coordinative (è dai 6 agli 11 anni la “fase d’oro” per acquisirle) del bambino. Tale mancanza ha ripercussioni anche in ambito sanitario, venendo meno l’acquisizione di uno stile di vita attivo, sano e che si prenda cura del benessere della persona, e aumenta la sedentarietà con tutte le conseguenze anche mediche che tale fenomeno comporta (già alla scuola secondaria di primo grado molti alunni non praticano regolarmente attività fisica).
L’augurio è che la scuola italiana entri nel nuovo anno tenendo presenti davanti a sé anche questi numeri e questi interrogativi, perché finalmente si possa provare a dare delle risposte ricordando che dietro a ciascun numero ci sono volti e famiglie, il futuro di tutti noi. Ma forse l’augurio è già “vecchio”.
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