Nonostante fiumi di analisi, programmi televisivi e profili professionali di supporto ad hoc (centri di ascolto, psicologi a scuola, corsi di aggiornamento e quant’altro) ci si continua a togliere la vita a scuola. Colpisce una cronaca del Corriere della Sera del 14 febbraio: “Il liceo sotto choc per i due suicidi. Psicologi in aula, verifiche sospese”. In un liceo di eccellenza della Brianza, due suicidi a pochi giorni di distanza gettano nello sgomento la comunità scolastica: semplice fatalità? Poco importa.



Comprensibile sia la decisione della direzione della scuola di sospendere le verifiche e attivare incontri di studenti docenti e genitori con Raffaele Mantegazza, docente e autore del volume Finire un po’ prima. Considerazioni pedagogiche sul suicidio, sia la disponibilità offerta dall’ospedale San Gerardo di Monza e dalla Clinica di neuropsichiatria infantile dell’Università Bicocca.



È sufficiente tutto questo per intervenire su tale fenomeno sociale (sintomo di un profondo e strutturato malessere in progressivo aumento nel mondo occidentale tanto ampiamente discusso e analizzato quanto difficilmente arrestabile) con interventi tampone?

Malessere in stato talmente avanzato da configurarsi suggestivamente come interfaccia nell’anima, sia di adulti che di più fragili giovani, del malessere generale e in particolare dell’ambiente umano e naturale del pianeta, a cui il mondo dell’educazione e delle relazioni fondanti la struttura di personalità in formazione non può sottrarsi.



Una piena consapevolezza della gravità della situazione emerge nelle analisi e nelle proposte sia di Papa Francesco sia di Michael Fullan, uno dei maggiori studiosi di sistemi di istruzione e ispiratore di riforme in diversi paesi “avanzati”. Da angoli visuali, responsabilità e sensibilità diversissime emergono posizioni (stranamente?) collimanti sul ruolo di un’educazione che ha perso il suo senso e il suo scopo elementare, essenziale e vitale, che si racchiude nel banale “prendersi cura amorevole” di chi ti è affidato e di te stesso.

Nelle argute analisi di Fullan, dalla necessità di non focalizzarsi sugli aspetti formali e superficiali dei processi educativi emerge la centralità delle dimensioni informali e delle sfumature (nuancers) delle dinamiche relazionali che garantiscono l’accompagnare a scoprire il rapporto tra la scuola e la vita al di là delle alte (quanto non significative dal punto di vista esistenziale)  performance accademiche.

Nel Messaggio del Santo Padre per il lancio del Patto Educativo è centralissimo il ruolo dell’educazione sfidata dalla cosiddetta rapidación, che “imprigiona l’esistenza nel vortice della velocità” di relazioni impersonali e anafettive e tecnologiche.

Di qui la necessità di un impegno corale, di “reti umane e aperte”, di un “villaggio dell’educazione” che rimetta al centro la persona, rinnovando il rapporto oggi frantumato tra lo studio e la vita, tra adulti e giovani, tra adulti e adulti, tra giovani e giovani, nella scuola e nella famiglia, nei luoghi di comunità.

Da angoli visuali diversi ma comunque attenti ai processi, ai mutamenti e alle sfide in atto, emergono con chiarezza e con linguaggi diversi un deciso richiamo alla centralità della persona, alle dinamiche implicite sottili, alle sfumature (che seppur decisive nelle produzioni di senso, sfuggono agli adulti e agli apparati istituzionali, quasi sempre assorbiti dalla logica delle “carte a posto” e dalle spersonalizzate procedure burocratiche formali); alle responsabilità sociali ed educative di nuove forme di leadership esperte di reti e di umanità.

E allora? È fame e sete di un nuovo Umanesimo che, reclamato non solo dal basso delle periferie, delle povertà e delle diversità, ma dai luoghi come quei prestigiosi licei di eccellenza, nei primi posti sia nelle varie graduatorie Ocse-Pisa, Invalsi, Pirls, sia nelle non classificate graduatorie delle aridità dell’anima e delle relazioni.