Parlare di inizio anno nella scuola è sempre piuttosto deprimente. Solito film. Il direttore della Fondazione Agnelli Andrea Gavosto commentando l’ultimo rapporto sulla scuola media italiana ha dichiarato che a distanza di dieci anni “la situazione non è migliorata” e che anzi, sotto diversi aspetti alcuni problemi si sono aggravati: livelli di apprendimento ancora insoddisfacenti, con solito divario Nord-Sud; studenti indecisi e confusi sul proprio futuro; docenti vecchi (uno su sei ha circa 60 anni) e poco aggiornati.



I dati poi sulla mancanza degli insegnanti all’avvio delle lezioni sono ancora impietosi, nonostante tutti gli sforzi di velocizzazione e i tentativi di oliare la macchina fatti da Azzolina e da Bianchi.

Colpa dell’algoritmo, del carattere barocco e assurdo del meccanismo o – novità, questa sì, di quest’anno – del rifiuto dell’incarico da parte di chi preferisce il reddito di cittadinanza? Comunque sia, la situazione è a dir poco imbarazzante. Ma il fatto più preoccupante è che tutti (ministero, amministrazione e sindacati) spingono perché questa macchina riparta così com’è, senza porsi il problema – che proprio perché siamo in emergenza dovrebbe costituire priorità e imperativo – di proporre passi che vanno in una nuova direzione, in un senso di marcia che guardi al futuro, che tenga conto dei cambiamenti già avvenuti e delle sfide che ci attendono. Manca una visione. Manca il realismo e il coraggio di una diversa visione.



Ancor prima di preoccuparsi di riempire i posti vacanti, si dovrebbe infatti pensare di colmare ben altri vuoti. I ragazzi sono rientrati “in” scuola. Fisicamente: ne hanno varcato la porta di ingresso e sono tornati ad “abitarvi”. Mi raccontava la dirigente di un ente di formazione di Torino (Piazza dei Mestieri) che i genitori, così come gli stessi ragazzi, hanno ringraziato di essere tornati in presenza, della possibilità cioè di poterci essere in modo intero, fisicamente. Con quel corpo che è così decisivo, specialmente a quell’età, nel definirsi della propria identità. Ed è subito stato evidente che il lavoro più grande non è quello di colmare deficit conoscitivi, ma di prendere in carico tutta la persona, anima e corpo. I ragazzi hanno ringraziato perché sono tornati in quel “luogo”, per di più anche bello. Ebbene è questo il primo vuoto da colmare.



In un intervento al Meeting di Rimini, Giorgio De Rita, ricordandone l’attualità, sottolineava come Barbiana documenti ancora, in modo plastico, fisico, l’idea e il metodo di scuola di don Milani. Non certo all’avanguardia dal punto di vista architettonico, ma per la sua capacità di esprimere un senso. Un luogo fisico e a un tempo culturale, di trasparenza al valore. Un’alta percentuale di edifici scolastici, sia per ragioni di adeguamento alle normative antisismiche, sia per la loro vetustà e strutturale inadeguatezza (molte sono nate addirittura per altre destinazioni) attende di essere ricostruita. Ma con quale sforzo di immaginazione e apertura al futuro? La scuola va ripensata “fisicamente”, perché possa essere un luogo.

L’uomo, gli studenti non sono fatti solo di pensiero, hanno un corpo, abitano uno spazio. L’educazione non può prescindere da questo. I valori, i significati non si trasmettono solo a parole, con discorsi. Come in una casa, ciò che conta non sono le prediche dei genitori, ma la reale disposizione delle cose e il clima che si respira.

Ma come sono la disposizione e l’organizzazione materiale della scuola, il suo curricolo non formale, forse più decisivo di quello formale? Ancora aule, spazi chiusi, con cattedre, insegnamenti, laboratori e attività extra-scolastiche (termine significativamente curioso) come ambiti di acquisizione tra loro separati, fruibili in tempi e spazi diversi. Questo “corpo” scolastico nei fatti, per chi vi abita quotidianamente non facilita un’esperienza di insegnamento e apprendimento unitaria. Un luogo poi non è solo costituito dagli elementi materiali, ma da un insieme di relazioni; anzi: è il risultato dell’interdipendenza e della tenuta tra i due fattori.

E qui sta il secondo grande vuoto da colmare. Negli ordinamenti, così come nella didattica ordinaria, infatti, il valore e il peso attribuito agli aspetti relazionali e che riguardano la messa in gioco di una responsabilità personale e sociale (le c.d. soft o character skills) è veramente minimale: queste cose fluttuano nella dimensione eterea delle grandi finalità, senza una loro messa a terra nella concretezza delle pratiche formative e valutative. Lo documenta lo stile e l’approccio ancora prevalente dei docenti, il modello che essi esibiscono in atto, che i ragazzi vedono agito e in cui sono implicati nella realtà di tutti i giorni, che non è certo quello di un team in azione, che collabora e discute, che affronta problemi e sfide nuove, che rischia, si pone domande senza la paura di nascondere il proprio “non sapere”, coinvolgendo in questa dinamica gli allievi.

Ma se così è, che fare per trasformare questo diroccato castello della famiglia Addams della scuola attuale in una casa abitabile, in un luogo aperto, libero, che faciliti un’educazione alla responsabilità? Oggi, in questa grande emergenza (educativa) nell’emergenza, la priorità è quella di porre in essere – come una sorta di cuneo dentro il sistema – luoghi in carne e ossa dove è possibile una nuova esperienza e forme nuove di apprendimento, unitarie e personali. Luoghi che rendono visibile la novità. Per questo serve essere visionari, cioè realisti, cioè umili: basta piegarsi a guardare la realtà, che offre gli spunti giusti e suggerisce sempre nuove soluzioni. Il coraggio quindi di rompere con lo schema cui si è assuefatti e che si continua a replicare. Perché cambiare è possibile.

Per tornare alla metafora della casa, chi è dotato di gusto e personalità se la riadatta, la “personalizza”. E fuori di metafora: soprattutto nel sistema di IeFP, dove le istituzioni non sono così imbrigliate come quelle statali, ci sono già esperienze che stanno tracciando nuove soluzioni. E nelle paritarie molto si potrebbe fare. Basterebbe avere un po’ più di coraggio, rimodellando l’habitat (modello organizzativo e della didattica) secondo l’esperienza educativa che già è presente. Le leve e gli spazi non sono molti, ma ci sono. Nello Stato è più difficile utilizzarli. Qui no. Coraggio, dunque.

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