Tra i commissari europei che dovranno essere cambiati vi è anche quello all’Educazione, cultura, gioventù e sport. L’attuale e uscente è Tibor Navracsics, ungherese, del partito Fidesz, di cui è leader Viktor Orbán. Oltre al commissario specifico, l’Ue ha anche un Consiglio che si occupa di questioni educative, composto dai ministri responsabili dell’istruzione di tutti gli Stati membri dell’Ue. Al Consiglio, che istituzionalmente dovrebbe riunirsi tre, quattro volte all’anno, partecipa anche il commissario del ramo. Le riunioni più recenti del Consiglio e sottogruppi analoghi si sono svolte la scorsa primavera (aprile-maggio 2019). Le conclusioni delle riunioni sono pubblicate sul sito della Ue.
Nel report di una di queste, dedicata ai giovani e al mondo del lavoro, si legge che “una solida base di competenze e un orientamento adeguato, sostenuti da analisi di buona qualità del fabbisogno di competenze e da sistemi di istruzione e formazione di alta qualità, flessibili e reattivi che includano la promozione dell’apprendimento permanente, possono aiutare i giovani a realizzare con successo transizioni verso il mercato del lavoro, e al suo interno, e a intraprendere carriere gratificanti”.
Poco dopo si legge ancora che “nello sviluppare le capacità necessarie per trarre efficacemente profitto della mutevole natura del lavoro, i giovani europei dovrebbero anche essere dotati di competenze chiave comprendenti competenze trasversali (soft skills) connesse, tra l’altro, alla capacità di risolvere problemi, alla comunicazione, alle capacità imprenditoriali, al pensiero critico e creativo, alle capacità di presentarsi, di esprimersi e di negoziare”.
In queste righe è contenuta, in sintesi, la filosofia dell’Unione Europea nel campo dell’educazione: i sistemi dell’istruzione sono finalizzati all’aumento della forza lavoro qualificata e alla creazione di più posti di lavoro. Secondo le fonti Ue, infatti, entro il 2020 più di un terzo dei posti di lavoro in ambito comunitario richiederà qualifiche di livello universitario, mentre solo il 18 per cento sarà meno qualificato. Più di 73 milioni di europei hanno bassi livelli di istruzione e quasi il 20 per cento dei giovani di 15 anni non è alfabetizzato. Il numero di abbandoni scolastici rimane alto e meno del 9 per cento degli adulti partecipa all’apprendimento permanente, ben al di sotto del target del 15 dell’Ue.
Le fonti europee, di cui commissario all’Istruzione e relativo consiglio sono cassa di risonanza, delineando le priorità strategiche 2016-2020, hanno battuto costantemente su tre chiodi: diffondere tra i giovani l’apprendimento delle competenze di base, promuovere l’apprendimento sul lavoro e insegnare le lingue. Se il mercato del lavoro è il fine ultimo dell’istruzione, le competenze e tutto il resto ne sono, per così dire, il mezzo attuativo.
Ora, posto che l’Unione non possiede strumenti coercitivi per costringere gli Stati nazionali ad adottare le sue raccomandazioni, si tratta di chiedersi se comunque prevalga nelle varie situazioni nazionali un certo tipo di allineamento alle indicazioni generali di Bruxelles. Allineamento che dovrà per necessità condizionare modelli organizzativi che, come documentava un recente studio dell’Indire, sono in Europa sostanzialmente tre: il primo prevede un’istruzione a struttura unica, tipicamente caratterizzante i Paesi nordici (ad esempio, Finlandia e Svezia), dove l’istruzione viene offerta senza transizioni dall’inizio alla fine del percorso scolastico obbligatorio; il secondo prevede l’offerta di un curricolo comune di base a livello primario e successivamente a livello secondario inferiore (ad esempio in Italia, Francia, Spagna); il terzo, infine, è caratterizzato da un’istruzione secondaria inferiore differenziata (il sistema educativo tedesco è fortemente improntato su questo modello).
Gli attori che nel campo dell’educazione e della cultura si muovono in un’ottica antieuropeista sostengono da tempo che i potenti strumenti che l’Europa possiede per fare breccia nei sistemi scolastici dei vari Paesi sono i progetti Pon, realizzabili con fondi aggiuntivi europei, e i sistemi sovranazionali di valutazione delle prestazioni scolastiche. Le obiezioni alle logiche europee troppo curvate sugli interessi del mondo economico hanno un loro fondamento, ma l’alternativa proposta per difendersi dagli eccessi dell’uniformità, e cioè il ripiegamento sulle strutture nazionali o addirittura regionali, non sembra altrettanto adeguata perché le sfide della globalizzazione non sono stabilite dall’Europa bensì dalla realtà.
Si impone piuttosto una profonda riflessione sul significato dell’educazione e, per quanto riguarda il nostro Paese, sull’equilibrio che ancora permane, fino a prova contraria, tra le competenze richieste dall’Europa e le conoscenze che arricchiscono ancora a tutti i livelli la proposta didattica, dai licei agli istituti professionali.
Da quest’ultimo punto di vista, a conferma, in qualche modo, che la tradizione della scuola italiana conserva una sua buona memoria, fa testo l’articolazione dei profili di uscita degli undici nuovi indirizzi di studio dei percorsi di istruzione professionale, e i relativi risultati di apprendimento, declinati in termini di competenze, abilità e conoscenze.
Ciò non toglie che il settore più delicato della scuola italiana, quello professionale appunto, non debba prevedere, come di fatto sta accadendo, più attività laboratoriali e più didattica per unità di apprendimento, dove le competenze esercitano un loro ruolo. Non manca inoltre, anche a questo livello della preparazione degli alunni, l’aspetto della personalizzazione degli apprendimenti che è la grande risorsa della scuola italiana. Una risorsa che l’Europa dovrebbe imparare.