Si parla tanto di migranti che arrivano, poco dei migranti italiani che se ne vanno. E sono tanti. Negli ultimi due anni, tra il 2021 e il 2022, i giovani fino a 34 anni che si sono trasferiti all’estero sono cresciuti dal 37% al 61%, mentre sono diminuiti gli over 50, scesi dal 40% a meno del 15%. In totale, in questi due anni, i migranti italiani in tutto sono calati da 130mila a 80mila. Ma è l’aumento percentuale dei giovani che se ne vanno, ci dicono i dati della Fondazione Migrantes, ad interrogarci sul serio.
All’Aire, cioè all’Anagrafe italiani residenti all’estero, risultano 5,2 milioni di stranieri in Italia, pari all’8,8% della popolazione, mentre gli italiani residenti all’estero, e iscritti sempre all’Aire, sono 5,8 milioni, cioè pari quasi al 10% della nostra popolazione.
Gli italiani residenti all’estero, per il Veneto, sono l’8,7% del totale. Gli italiani partiti negli ultimi due anni sono, per il Veneto, l’11,7%. Sono giovani che se ne sono andati ma che non tornano. La principale motivazione è il lavoro: l’occupazione nel 2020, tra i 15 e i 29 anni, in Italia è al 29,8%, mentre in Europa è in media al 46,1%.
La provincia di Vicenza è la seconda in Italia per tasso di emigrazione dei giovani verso altri Paesi. I dati Istat non lasciano dubbi. Nel 2010 questi giovani nel vicentino erano 410, dieci anni dopo 1.296.
Dati che fanno male, perché si intuisce quante opportunità di crescita vanno in fumo.
Ma la cosa più preoccupante non riguarda solo il lavoro, riguarda il talento e l’alta formazione che tanti giovani riescono a maturare grazie alle nostre scuole e alle nostre università, assieme alla spinta delle famiglie. Eccellenze però in casa nostra non sempre riconosciute.
Una scelta, quella di lasciare l’Italia per cercare fortuna all’estero, non facile, e non da tutti. Perché ci vuole una forte motivazione per vincere la resistenza della propria terra, degli amici, degli affetti. Insomma, chi parte, secondo alcuni di loro, per lo più non lo fa volentieri, perché è bello, per molti, aprirsi nuove strade, cercare l’avventura, ma pensare che possono essere scelte definitive non è mai senza dolore.
Mentre per tanti altri la spinta è diversa: si va all’estero per cercare una società più aperta, esperienze che a casa non si trovano, sapendo che il punto chiave non è il posto fisso, vecchio retaggio nostrano, mentre oggi contano la qualità ed il senso del lavoro, e poi stipendi che siano riconoscenti e proporzionati. Parlano, infatti, di “work-life balance”, cioè di equilibrio tra vita privata ed il lavoro. Francesca, una giovane trentenne bassanese che da anni vive a Barcellona, ma che attualmente si trova per un progetto a Londra, cita ad esempio la tendenza italiana di obbligare, da parte di alcune aziende e studi professionali, a rientrare in ufficio per tutto il tempo lavorativo, cosa che per i millennials non ha più senso, tanto da farne uno dei criteri di scelta di una opportunità. In poche parole, per questi giovani la scelta dell’estero non è un ripiego, ma uno stile di vita, meno chiuso del modello familistico italiano.
Ma non c’è solo questo. Pensiamo al mancato riconoscimento della bontà formativa e delle potenzialità professionali dei nostri giovani. Basta verificare gli stipendi del post-laurea in Italia e nel resto del mondo avanzato.
Uno stage a 600 euro mensili, se va bene a 1000 euro, non è un invito a rimanere. In altri Paesi non è così. Mettiamoci, ogni tanto, nei panni di questi giovani in gamba. Tutti ne abbiamo qualcuno o qualcuna nelle nostre famiglie. E non c’è tecnologia che tenga, per mantenere il filo con loro all’estero.
Insomma, in Gran Bretagna, al di là della Brexit, o in Germania hanno un diverso concetto di contratto di lavoro. Non c’è, lo ripeto, la nostra idea di posto fisso, o di “ruolo”, cioè di lavoro intoccabile. Il che però non vuol dire precariato. In altri termini, i giovani non cercano la stabilità fine a se stessa, ma la qualità professionale, cioè un indirizzo concreto della vita. Sapendo che è questo che dà la vera stabilità. Mentre in Italia siamo ancora sospesi tra posto fisso e precariato, con le conseguenze che conosciamo. Che siano queste differenze a rendere più attrattive le offerte di lavoro all’estero, anche se avvengono lontane da casa?
Resta il dispiacere: le nostre scuole e università fanno molto, moltissimo, per i nostri giovani. È triste, per chi è abituato ai modelli passati, vederli o sentirli lontani. Ma ciò che conta, che sia all’estero o in un’altra regione italiana, è saperli contenti, sereni, si spera realizzati.
A dare questa serenità vi è anche la convinzione che è la formazione umanistica ad avere alimentato talenti e passione, cuore di ogni professionalità. Cioè quella formazione di base che può fare la differenza rispetto ad altri modelli. Se tanti nostri giovani sono richiesti e ricercati da ogni dove, non contano forse l’estro, la flessibilità, la creatività, ben conosciute ed apprezzate in tutto il mondo? E da dove provengono?
Ci lamentiamo tanto, e a ragione, di alcune criticità in casa nostra, eppure vediamo, al tempo stesso, quante eccellenze “produce” il nostro sistema formativo. In altre parole, qual è l’originalità della scuola italiana rispetto ai modelli di altri Paesi? Soprattutto dei Paesi più avanzati, appartenenti all’Ocse, cioè monitorati con le comparazioni Ocse-Pisa attraverso i test in alcune materie.
Ogni tanto dire anche il buono che c’è in Italia non dovrebbe far male. Anzi. E la sua originalità sta, lo ripeto, nel suo modello di scuola umanistica, la quale non punta da subito sulla specializzazione in questa o quella materia, in questo o quell’indirizzo di studio, ma cerca di offrire un ventaglio di discipline in funzione di una formazione di base generale sulla quale, in seconda battuta, impiantare una specializzazione ben precisa.
Sino ai 14 anni, insomma, vi è una formazione unitaria, e solo con la scelta delle superiori ci si divide per indirizzi. Ma è una divisione che non dice vera e propria settorializzazione, che avverrà nelle tappe successive.
La specializzazione, cioè il sapere tutto o quasi su un frammento, non fa parte della scuola italiana. Questo rende flessibile la ricerca, ma anche adattabili e rinnovabili continuamente i percorsi di approfondimento.
Ebbene, queste sono le qualità o capacità più ricercate oggi in mezzo mondo. Che dicono del buono della scuola italiana. La quale non pretende di trasmettere il tutto di un determinato sapere, ma offre, assieme al progress dei contenuti, metodi di approccio aperti alle sempre nuove complessità. Dicendo in sostanza ad ogni ragazza o ragazzo: “cammina ora con le tue gambe, con le tue passioni, con la tua testa”.
La potremmo chiamare “etica della responsabilità” sul piano, questa volta, esistenziale, culturale e sociale.
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