Prima di farsi travolgere dalle urgenze per l’avvio dell’anno scolastico, potrebbe essere opportuno porsi qualche domanda e condividere alcune riflessioni in grado di dare dignità ad una professione docente che rischia di appiattirsi su esigenze burocratiche, invece di rivendicare la sua alta vocazione culturale.
Il docente, o forse sarebbe più adatto usare in questa prospettiva il termine “maestro”, dovrebbe essere innanzitutto un uomo, una donna di cultura e quindi avere a cuore la cura della ragione, dell’intelligenza.
Compito ancora più urgente nell’attuale contesto storico interessato dall’affermazione dell’intelligenza artificiale, espressione linguistica in realtà da ricondurre ad un ossimoro, visto che l’intelligenza è un proprium dell’essere umano e non può dunque essere accomunata a un algoritmo.
Ma quale ragione? Prima di preoccuparsi della sua cura, è opportuno dunque comprendere a che cosa pensiamo quando parliamo di ragione.
Può essere illuminante al riguardo una citazione di Luigina Mortari, Filosofia della cura (Cortina, 2015): “La cultura moderna ci ha insegnato a frequentare una ragione intellettualistica, che nega valore al lavoro di perfezionamento personale, nega che l’agire etico sia conoscenza e valorizza l’argomentazione a scapito della visione (Murdoch, 1997, p. 295), ma quella che sembra informare le pratiche dell’aver cura è una ragione che si tiene in contatto con la vita. Si può parlare di ragione materna (Zambrano, 1994, p. 34), che prima di tutto si prende a cuore la qualità dell’essere delle cose e per questo è capace di fecondare l’esserci. È una ragione che, senza disdegnare la ricerca di evidenze e la precisione della ricerca scientifica, è poetica perché non solo si nutre della parte affettiva ma si tiene attenta alla materialità delle cose nei suoi più piccoli dettagli”.
Mortari mette in guardia dalla riduzione della ragione a una visione scientista, intellettualistica, come se la ragione potesse essere un’entità astratta, identificabile con operazioni e strategie isolabili dall’interezza della persona. Un’intelligenza che sarebbe chiamata in causa solo in alcune azioni, in particolari frangenti, quelli “intellettuali”, quali lo studio, la ricerca, la risoluzione di problematiche specialistiche, lontane dalla quotidianità.
In questa prospettiva, ricorda Mortari, non ci sarebbe nessuna necessità del “lavoro di perfezionamento personale”, come se la maturazione dell’io, il suo rapporto con la realtà non avessero da dire nulla all’intelligenza, che in questa prospettiva sarebbe patrimonio innanzitutto delle persone istruite, di chi ha studiato di più, ha scritto più libri, ha pubblicato un maggior numero di articoli sulle riviste di settore.
L’intelligenza sarebbe da ricercare quindi innanzitutto tra gli specialisti delle varie discipline e non avrebbe nulla a che fare con la realtà quotidiana, con gli affetti e l’etica. Non sarebbe quindi propriamente corretto definire “intelligente” il comportamento di una mamma che accompagna il figlio nella quotidianità della vita, aiutandolo a rispondere alle diverse sollecitazioni che la realtà gli offre, o quello di un docente, convinto che senza una relazione positiva, capace di guardare innanzitutto a ciò che c’è, prima che a ciò che non c’è, non accade nessun apprendimento.
Ma come si potrebbe descrivere il lavoro di perfezionamento personale, utile a nutrire l’intelligenza?
Quale profilo potrebbe avere una persona che si preoccupa del suo perfezionamento personale?
E, tornando alla sollecitazione da cui ha preso avvio questo testo, qual è il profilo del docente che ha cura della sua ragione? Un docente capace di lasciarsi interrogare dalla complessità e dalla varietà della realtà, libero dalla tentazione di ingabbiare le provocazioni dei suoi studenti negli schemi del già noto, anche quando il già noto ha il volto delle conoscenze dell’accademia.
La generazione del sapere, l’avvenimento dell’apprendimento hanno come presupposto la curiosità, la domanda, espressioni di un io insoddisfatto, consapevole che l’avventura della conoscenza non ha termine, non perché crescono le conoscenze in modo vertiginoso e quindi le si deve rincorrere in continuazione, ma perché la realtà è per sua natura più grande di tutte le congetture del pensiero.
Si tratta di riappropriarsi di una posizione davanti al reale e alla vita, lontana dalla supponenza di chi crede di sapere già, di avere una risposta sempre a disposizione, e che, invece, al contrario resta aperto alle sue domande e alle domande degli studenti.
Il perfezionamento personale è proprio di chi è disponibile a cambiare, a mettersi in gioco, perché quanto vale o è stato efficace in passato non è detto che valga o sia riproponibile in un’altra classe o in un altro studente.
Chi ha cura del proprio perfezionamento umano comprende che la ragione è permeata dalla categoria della possibilità, non è statica, è aliena dalla riproducibilità.
Il maestro ha dunque stima del dialogo e dell’ascolto, perché è assetato di comprendere ogni sfaccettatura della realtà, non considera tempo perso fermarsi ad approfondire, consapevole che l’apprendimento è per sua natura un processo che procede per ritorni continui, visto che non è mai riassumibile in un’astratta definizione.
Certo una scuola preoccupata solo delle prestazioni difficilmente si interroga sul perfezionamento personale, lo considera superfluo, alieno dalle sue finalità.
Ci si può prendere cura dell’esserci delle cose, come riferisce Munari, solo se si coltiva un atteggiamento di apertura verso la realtà, se si guarda all’esserci delle cose con passione, non con fastidio o con supponenza.
La passione per il proprio lavoro, per la condivisione della conoscenza con gli studenti sono caratteristiche della “ragione poetica”, che non scinde le esigenze affettive da quelle razionali, è una ragione che si nutre di un’argomentazione intesa non come ragionamento astratto, ma come capacità di incontrare la realtà nella sua materialità, nel dettaglio delle cose, cercando però di non lasciarsi imbrigliare dal particolare, ma, partendo dalla sua carnalità per ricondurlo all’intero, come ricorda Chesterton, nel suo San Tommaso d’Aquino (Piemme, 1998): “Ma san Tommaso aveva l’umiltà scientifica nel senso spiccatissimo e speciale che era pronto a prendere il posto più basso per l’esame delle cose più basse. Non studiava il verme come se fosse il mondo, come fanno gli specialisti moderni; ma era disposto a cominciare a studiare la realtà del mondo nella realtà del verme. Il suo aristotelismo significava semplicemente che lo studio del fatto più umile porta allo studio della più alta verità”.
Questa cura del particolare e della sua carnalità risulta essere una caratteristica particolarmente significativa per far fronte al rischio dell’affermazione esclusiva del virtuale.
Il Corriere della Sera del 17 agosto ha ripreso la lettera di uno studente milanese che, al termine del suo percorso nella scuola secondaria di secondo grado, accusa il sistema scolastico di non aiutare gli studenti a crescere, a diventare adulti e a inserirsi nella società. Unica preoccupazione della scuola sarebbe il risultato, il voto, in una situazione di ansia continua, che non consente di dedicare tempo a sé stessi e alla costruzione della propria persona.
I contenuti della lettera hanno generato reazioni diverse tra insegnanti e dirigenti scolastici intervistati dal Corriere, concordi però nel rilevare un disagio diffuso tra gli studenti. C’è chi si è detto interessato a verificare l’ipotesi della scuola senza voti, chi ha posto l’attenzione sull’aspettativa delle famiglie nei confronti dei figli, salvo invocare poi un atteggiamento accudente e materno da parte degli insegnanti, chi riconosce valore al voto ricordando che si tratta solo di valutare competenze e non di giudicare la persona, chi infine ricorda che il disagio degli studenti c’è sempre stato, ma che non è detto che la fatica sia la strada per temprarsi, per diventare più forti e più capaci di far fronte alle difficoltà che la vita inevitabilmente pone davanti.
Tutte osservazioni legittime e ipotesi di risposta da guardare con attenzione e rispetto, vista la complessità della situazione, che chiede innanzitutto una grande assunzione di responsabilità degli adulti dentro e fuori la scuola.
È compito degli adulti infatti testimoniare il valore della ragione e l’importanza del “lavoro di perfezionamento”. I giovani hanno un grande fiuto nel riconoscere i testimoni dai parolai o dai predicatori.
Il testimone vive di gusto, di passione per quello che insegna e non indietreggia davanti al lavoro di “perfezionamento personale”, come ci ricorda Morin in Insegnare a vivere. Manifesto per cambiare l’educazione (Cortina, 2015): “Per insegnare, affermava Platone, c’è bisogno dell’Eros, cioè dell’amore. È la passione dell’insegnante per il suo messaggio, per la sua missione, per i suoi allievi che garantisce un’influenza possibilmente salvifica, che fa sbocciare una vocazione da matematico, da scienziato, da letterato”.
Il disagio dei giovani, più che di una palestra da frequentare per temprare i muscoli, come alcuni sostengono, e diventare così più forti nella futura vita sociale e professionale, ha bisogno dell’incontro di adulti competenti e appassionati. Si apprende e si cresce grazie al fascino intravisto nella comunicazione con l’adulto, non tanto in uno sforzo volontaristico.
La ragione poetica, che non scinde argomentazione da visione, è anche garanzia per la crescita e la conservazione di una sana democrazia. Menti “coltivate” a scuola con il lavoro del “perfezionamento personale” sono il baluardo di una società libera dall’omologazione.
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