Questo è il periodo cruciale dell’anno scolastico, perché in tutte le scuole ci si accinge a dare inizio al “rito” della valutazione di fine anno, quella che decreterà il risultato delle fatiche di tutti gli alunni dalla prima classe della scuola primaria alla quinta degli istituti del secondo ciclo (c’è qualcuno che chiude il giro al quarto anno, ma la questione non cambia).
Contemporaneamente hanno avuto ampia risonanza sui principali quotidiani e sulle rispettive piattaforme online le percentuali di promozioni e bocciature, fornendo l’impressione di anticipare addirittura gli eventi, ma si tratta dei dati relativi agli scorsi anni scolastici.
Prima, forse insignificante, domanda: perché si è voluto “anticipare” la realtà con la notizia? Numeri e grafici raccontano di un incremento delle “ammissioni all’anno successivo”, alias “promozioni” e, va da sé, di una riduzione delle “non ammissioni”, cioè delle “ripetenze” o altrimenti detto, delle (politicamente scorretto) “bocciature”. Ovviamente si entra anche nei dettagli per distribuzione geografica e per tipologia di scuola dei successi e degli insuccessi, con l’immancabile sperequazione tra Nord e Sud Italia e fra licei e istituti tecnico-professionali. Viene affrontata anche l’analisi delle valutazioni nelle discipline ravvisando che, accanto ad un maggior tasso di successi, si registra un appiattimento sul “sei” in talune discipline, come la matematica.
Ma qui non voglio addentrarmi nell’analisi dei dati, chi volesse può partire da quanto reperibile on line per esempio sul sito del Corriere, oppure direttamente alla fonte sul sito del Miur.
Mi domando come mai tanta enfasi ora, poco prima che si entrasse nel vivo degli scrutini finali, ai risultati dei precedenti anni, quando sarebbe bastato attendere un mesetto per avere elementi di discussione più “freschi”.
Si tratta di preoccupazione o compiacimento? Cioè una specie di exit poll fatto trapelare a “urne aperte” per tentare di invertire o incrementare, a seconda delle posizioni, il fenomeno di una “scuola che non boccia (quasi) più”, come ha sottotitolato Il Sole 24 Ore.
Seconda questione: la qualità di una scuola, o di un sistema scolastico, consiste nel tasso di ripetenze o, viceversa, dei promossi?
Sì e no allo stesso tempo. E non semplicemente in funzione del verso con cui si affronta il problema e ancora non semplicemente sulla base dei fattori che incidono sugli esiti, “buonismo”, rigore, inflessibilità, scoraggiamento, senso di impotenza e via elencando tutti quei sentimenti che caratterizzano i consigli di classe riuniti in per gli scrutini finali.
Il sito di Disal riporta l’articolo del Sole 24 Ore appena richiamato introducendolo con la domanda: “Scrutini finali: un indicatore per la qualità e le competenze?” che suggerisce un’altra chiave di risposta alla questione.
La qualità allora è misurabile dal bagaglio equilibrato di soft e hard skills con cui anno dopo anno si costruisce la personalità degli studenti che di anno in anno transitano in una scuola o in un sistema di istruzione.
E se ciò avviene con regolarità e senza intoppi è sicuramente un bel segno, ma vista la posta in gioco eventuali pause possono non rappresentare un dramma. Il dramma va in scena se il tutto si riduce a numeri (voti o statistiche a grande scala) e si perdono di vista gli attori in gioco e le relazioni che si sono (o si sarebbero dovute) costruire per generare alla società una nuova persona adulta.
Terza questione: cosa può essere necessario? Forse un po’ di coraggio a ripensare il modo di fare scuola e i processi che la governano, con giudizio e ponderazione senza semplicemente affidarsi a strategie che non vanno ad incidere il cuore del problema, ma si limitano ai pur importanti esiti.
Esistono interessanti esperienze di approccio, per esempio, al segmento che manifesta maggiori criticità, quello degli istituti professionali, dove si incide efficacemente su percorsi di apprendimento e competenze. Si tratta, senza preclusioni, di raccogliere le migliori indicazioni.
Probabilmente occorrerà anche ripensare al modo con cui si promuove, discostandosi dal dogma della classe e ipotizzare successivi livelli di materia oppure, e anche, prendere di petto il tabù del valore legale del titolo di studio, superandolo, per ridare slancio all’autonomia e alla sperimentazione di nuove vie e raccogliere preziose indicazioni.
Ma ancor più ritengo sia necessaria una comunità educante capace di reggere la sfida del “generare” e non semplicemente del trasmettere un corpo, anche molto complesso, di conoscenze e di qualche, anche molto articolata, “istruzione per l’uso”.
In grado di reggere la mancanza di desiderio, l’accontentarsi dell’apparenza, del far quadrare al minimo le medie (quando va bene!), l’apatia o la fuga dalla fatica che caratterizzano tanti studenti. Di reggere e accompagnare, quando capita, anche la sconfitta.
Questo si può fare a costo zero o meglio al costo di una consapevolezza continuamente ricercata e condivisa del ruolo dell’adulto-docente in questo contesto sociale.