Il 19 dicembre scorso la Conferenza dei presidenti delle Regioni e delle Province autonome ha siglato l’accordo con cui vengono recepiti due documenti: il quadro delle confluenze tra i percorsi di qualifica e quelli di diploma professionale e quello delle “risorse” personali, sociali, di apprendimento e imprenditoriali.



Decisioni importanti. La prima perché per l’istruzione e formazione professionale (IeFP) va a modificare lo schema 3+1 dello sviluppo lineare dei curricoli, che risentiva ancora dell’impostazione scolastica a favore di una logica formativa che si rimodella, in modo flessibile, in funzione delle reali esigenze ed evoluzioni del mondo del lavoro.



La seconda – su cui vogliamo ora puntare l’attenzione – perché introduce in ambito formativo le cosiddette soft skills, con una modalità interessante, significativamente diversa da quella adottata dal sistema di istruzione. Innanzitutto va detto che queste dimensioni sono state assunte con un atto e in una sede diversa da quella (accordo Stato-Regioni del 1° agosto 2019) con cui sono state recepite le competenze tecnico-professionali e culturali di base che costituiscono il quadro degli standard di apprendimento della IeFP.

Il motivo è che queste ultime rientrano nel novero dei Livelli essenziali delle prestazioni che le Regioni sono tenute ad assicurare e che, come tali, sono oggetto di un accordo con lo Stato. Il resto invece no, non lo richiede: è di diretta competenza delle Regioni e rappresenta una sorta di valore aggiunto che esse hanno inteso attribuire, per qualificarlo e caratterizzarlo, al proprio sistema.



Ma quali sono gli aspetti di interesse? Le Regioni hanno operato infatti una scelta che in prima battuta sembra essere assai prudenziale, se non minimalista: assumere questi “oggetti” senza caratterizzarli in alcun modo, né a livello di denotazione (definendoli ad es. come abilità o competenze o altro), né di articolazione in ulteriori elementi (conoscenze, abilità e/o altro), così come per gli altri standard di apprendimento. La locuzione utilizzata per indicarli è quella generica di “risorse” e il descrittivo è quello tout court, con solamente piccolissime integrazioni, delle competenze chiave europee, da cui sono state volutamente riprese e copiate.

E già qui sta la prima novità: se aggiungiamo questi “oggetti” agli altri standard di apprendimento (quelli nuovi adottati nella Conferenza Stato-Regioni del 1° agosto) si vede come il loro insieme corrisponda e copra il quadro delle competenze chiave europee. La scelta esplicita è stata infatti quella non di procedere nel definire prima in modo autoreferenziale i propri contenuti di apprendimento, per poi dichiarare che essi si “riferiscono” a quelli europei; bensì, al contrario, di determinarli a monte come declinazione effettiva di questi ultimi. Operazione quindi non formale, ma sostanziale e di sistema. Con un nota bene: mentre le competenze culturali e professionali sono ben articolate, dimensionate e posizionate (ai livelli III e IV EQF/QNQ), le “risorse” no.

Volutamente no. Il motivo è semplice e traduce una precisa scelta di metodo, giacché se per le prime esiste un consistente patrimonio di esperienza che ha permesso di determinare e configurare lo standard, per le seconde si è ancora in presenza di una molteplicità di modelli, prospettive e codifiche, ma non di prassi formative e valutative da cui attingere e così mature da essere formalizzate. Almeno per quanto riguarda l’ambito del sistema di istruzione e formazione, ben attrezzato per le forme tradizionali dell’apprendimento (in particolare per le conoscenze), ma non per queste. Che rappresentano la nuova frontiera e su cui si gioca la sfida del futuro.

E qui la seconda novità del testo approvato in Conferenza dei presidenti, scelta non minimalista, ma corretta dal punto di vista del metodo e coraggiosa: riservare la valutazione dell’opportunità e della sussistenza dei presupposti di un’eventuale codifica di queste dimensioni in termini di standard e di standard di apprendimento al termine di una fase di sperimentazione, dove le Regioni e le istituzioni formative e scolastiche che intenderanno parteciparvi potranno verificarne condizioni e grado di formabilità e valutabilità.

Anche l’Istruzione nelle sue Linee sui Pcto del 4 settembre ha fatto proprie queste dimensioni soft. Esattamente le stesse, tra l’altro, che sono state adottate dalla Conferenza dei presidenti (l’idea molto probabilmente è stata mutuata proprio dal documento tecnico presentato ben otto mesi prima dalle Regioni, in vista dell’approvazione in sede di accordo). Ottima circostanza, che può aiutare a fare sistema. Anche se nella scuola è molto forte il rischio che queste competenze vengano relegate nel recinto di percorsi e attività separate dal resto della didattica, in modo tale che quest’ultima non ne sia toccata. Staremo quindi a vedere che cosa i due sistemi – statale e regionale – e soprattutto i soggetti che erogano l’offerta – istituzioni scolastiche ed enti di formazione – riusciranno ad attuare.

Solo un’ultima considerazione, sull’importanza di questa nuova sfida. Recentemente, tra le ragioni di impuntata resistenza dei docenti verso la IeFP ho sentito anche questa: è bene che i ragazzi soprattutto delle aree disagiate (come il Sud) siano inseriti in percorsi che hanno il massimo della durata, ossia 5 anni, perché altrimenti, ottenuta dopo appena 3 anni una qualifica, potrebbero uscire dal sistema formativo e non troverebbero nulla. Lavoro infatti non ce n’è; meglio quindi tenerli il più possibile in un circuito protetto. Modo di pensare devastante, soprattutto in ambito educativo e per una fascia d’età che richiede ancora di essere strutturata. Perché interiorizza e ripropone una condizione di subalternità. Certo che “fuori” ci sono problemi, anche grossi. Ma come non comprendere che ogni problema è anche, contestualmente, un’occasione di lavoro, perché ogni mestiere nasce e si configura come risposta a un qualcosa che manca. Come non pensare al fatto che la prima risorsa è l’energia dell’uomo, la sua creatività e voglia di rispondere alle sfide? Ben vengano tutte le altre condizioni, ma senza questa nulla funziona.

Le risorse ci sono già: sono il capitale umano dei ragazzi che ci sono affidati. Da lanciare con entusiasmo e determinazione nella realtà. Il programma da realizzare coincide con la loro persona e si chiama, innanzitutto, “risolvere problemi”, “lavorare in équipe” e “autoimprenditorialità”. Si tratta delle “soft skills”, che sarebbe ora di cominciare a considerare l’hard del processo formativo. Combattendo la più grande povertà, che è di tipo mentale e culturale: il darsi per vinti prima ancora di combattere.

Recentemente ho letto questo bellissimo commento di T. Pellizzari sul Corriere della Sera Sport, sul cammino dell’Atalanta nella Champions, che l’ha vista passare alla fase dell’eliminazione diretta dopo aver perso le prime tre gare del gruppo. “L’ha fatto con la volontà, ma anche col coraggio: (….) due dei tre gol allo Shakhtar li hanno segnati i terzini. Perché l’Atalanta gioca di squadra”. E così, in campionato “finisce per stroncare quasi ogni avversario, che finisce la partita come un pugile suonato da un numero spaventoso di pugni arrivati da ogni parte, magari dopo avere osato colpire per primo (e infatti la squadra di Gasperini è quella che in questo campionato ha recuperato più punti di tutti, ben 11, da situazioni di svantaggio)”.

È una squadra piccola, ma bella, perché creativa e che non si arrende di fronte allo svantaggio. L’articolo si conclude stabilendo una analogia con quelle “tante piccole aziende della provincia italiana non hanno avuto paura di andare a conquistare pezzi di mondo con la loro creatività, il loro coraggio, il loro culto del lavoro”. Ebbene: a questo dovrebbe formare la scuola.