“Ma li hai visti i miei alunni? Non sanno tenere in mano la penna! e tu gli proponi di leggere i racconti di Morselli? Ma dove vivi?” Così si è sentita rispondere – con varianti sul tema – una mia amica, assegnista presso l’Università dell’Insubria, che cercava insegnanti da coinvolgere in un progetto legato alla recente pubblicazione postuma dei racconti di Guido Morselli (Gli ultimi eroi, Il Saggiatore, 2024). Eppure il progetto proposto prevederebbe da parte degli studenti non la stesura di un saggio critico sull’autore, bensì la preparazione di un “itinerario Morselliano”, un’iniziativa creativa che aiuti a diffondere nel territorio di Varese la figura dello scrittore Guido Morselli (1912-1973), che qui ha passato la vita.



Il commento dei colleghi terminava tipicamente con la seguente affermazione: “non ci provo neanche, sono cose per il liceo classico!”. Si sente nelle loro parole scoraggiate una visione negativa degli studenti e anche un dare per scontata la stratificazione ben nota (e ingiusta) che passa come un topos: i CFP e i professionali sono la scuola dei perduti senza speranza, il tecnico sta un pochino più su, i licei sono l’apice. È il topos che qualche decennio di riforme di questo segmento tenta di modificare. La rassegnazione sui propri alunni riflette una disistima su di sé come insegnante: se insegni al liceo sì che sei degno di questo nome (ma qualche prof del classico rimpiange la mancata carriera accademica), al tecnico sei un po’ residuale, al professionale e al CFP sei il tipico sfigato che non ha trovato di meglio. Comunque, sei impotente. Ma questo quadro delle cose corrisponde al vero?



Una studentessa dell’Università Statale di Milano, di cui ho seguito la stesura della tesi di laurea magistrale in didattica della lingua italiana, ha dimostrato con ampia bibliografia internazionale e dati di ricerca quella che è stata la sua esperienza personale di insegnante proprio nel segmento professionale. L’esperienza consiste nella lettura integrale ad alta voce di romanzi di livello letterario (un solo esempio: La strada di Cormac McCarthy) a classi di CFP e dell’istituto professionale. La tesi documenta come attraverso letture emotivamente partecipate siano cresciuti non solo l’interesse per il mondo, ma anche le competenze lessicali, sintattiche e testuali degli studenti. La tesi presenta in appendice un corpus di testi scritti dagli alunni, che dimostrano l’effettivo raggiungimento di risultati piuttosto sbalorditivi, se si pensa che l’input non era assolutamente banale e la “platea” affatto digiuna prima di allora di letture “alte” (sia detto per inciso, la sessione di laurea ha visto la presenza partecipe degli alunni, quasi tutti stranieri, venuti a vedere la loro prof, e i commenti più che entusiastici della commissione, presieduta quel giorno dal rettore dell’università).



Come è stato possibile questo? Io credo che, oltre a un’innegabile capacità didattica dell’insegnante, giochi un ruolo anche la sua fiducia che i giovani siano aperti alle sfide importanti, che ci sia da parte loro il desiderio di crescere e di aprirsi al mondo della lingua medio-alta e della testualità complessa. Un rischio assunto deliberatamente, che ha portato frutti.

Al contrario, ritenere che gli alunni siano troppo fragili, troppo poco alfabetizzati, troppo indietro non è un buon assunto per farli crescere: serve appunto la fiducia nel desiderio di bene (anche intellettuale) che ciascuno porta ben nascosto dentro di sé. Mi viene il sospetto che tanta apatia che si vede in classe sia in una certa misura provocata dallo scoraggiamento dei prof e dalla mancanza di proposte forti, impegnative, sfidanti. L’asticella abbassata potrebbe essere non tanto l’effetto, quanto la causa che a catena produce progressiva demotivazione. Per anticipare l’obiezione: un obiettivo alto, se c’è una strada ragionevole e progressiva (un metodo, direbbe don Giussani), pensata bene e ben condotta dal docente non produce ansia ma anzi induce alla sfida, esalta la grinta, dà soddisfazione.

Questo pensiero mi si è rinforzato incontrando per caso su Youtube un metodo di insegnamento del calcolo mentale matematico che si chiama Superclever, diffuso in molti Paesi ma non in Italia. Nel video che mi è capitato sott’occhio si vede una bambina di forse otto anni che con una procedura che le è stata insegnata compie una serie di passaggi mentali a velocità sostenuta, e alla fine dà il risultato giusto e si sente dire “brava!” (questa conclusione anche in altri video dello stesso canale).

Anche la mia amica assegnista ha un’esperienza interessante, nata in anni precedenti all’interno di un CFP lombardo, in cui si sperimenta un modello tecnico-umanistico integrale. In questo modello è abolita la divisione (ingiusta) fra teoria e pratica, e gli studenti sono coinvolti in un percorso impegnativo di progressiva acquisizione di metodo autonomo e di responsabilità (cioè di competenze). Si tratta di un modello che fonda tutto sulla persona, non sull’enfasi sui progetti che vanno per la maggiore (STEM, potenziamento digitale, metodologie attivistiche, …), e che incide potentemente anche sulle soft skills: motivazione, senso di autoefficacia, creatività.

Entrambe le persone che ho citato hanno pubblicato le loro esperienze e riflessioni (Letizia Ferri, Una scuola per l’integralità della persona, Marcianum Press, 2024; Giulia Totaro, La lettura ad alta voce per rifondare il curricolo di italiano degli istituti tecnici e professionali, Ledizioni, 2024): i due libri verranno presentati al Meeting di Rimini, su iniziativa di Diesse (Didattica e innovazione scolastica) e fra le proposte della Compagnia delle Opere – Opere educative, il giorno 21 agosto 2024, in una giornata in cui sarà a tema la filiera tecnica e professionale.

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