Quando è nata la didattica a distanza?

Prima della radio, ovvero prima del Novecento, l’unica via per l’uomo vivo d’essere presente ad altri che non fossero a tiro d’orecchio, che non fossero cioè in presenza, era la scrittura.

Certo, esisteva anche l’arte visiva: pittura, scultura, architettura sono anch’esse forme didattiche, a modo loro. Ma ciò che manca solitamente a queste forme altissime di espressione umana è il discorso – e tralasciamo pure, almeno per ora, il contesto.



Fu la scrittura a introdurre il discorso, a porre una tesi ed il suo sviluppo, ed in seguito l’antitesi e la sintesi. Nel mondo dell’oralità tutto nasce e muore in un breve volgere di tempo, un tempo spesso troppo rapido perché la memoria possa trattenerlo davvero. Per questo i romani scolpirono nel bronzo le loro prime leggi e le esposero nel foro, davanti agli occhi di tutti. Fu per questo che Mosè incise la pietra.



E fu la scrittura a mostrare il prima e il dopo, il senso del tempo, come ha mirabilmente mostrato Vilém Flusser (La cultura dei media). Lo scorrere in avanti del senso e (si ribalti per una frase la freccia occidentale della lettura) fine la verso procedere inesorabile suo il, mentre il tempo presente del lettore si dilata ad abbracciare, nel gesto padrone dello sguardo, il passato e il futuro del dire.

Insomma fu la scrittura a tracciare il filo avvolgente del discorso, quel legame invisibile che avvince autore e lettore, autore e lettori, e questi tra loro. Perché siamo tutti legati a Omero e Virgilio, Dante e Shakespeare, Tolkien e Corti, o meglio a tutti i nomi e i volti che campeggiano nelle nostre biblioteche, pubbliche o private che siano.



Perché questo fa la copertina dei libri: li protegge e li abbraccia, certamente, ma soprattutto dà loro un volto – diverso di edizione in edizione, mutevole come le pieghe degli autori che li hanno partoriti: perché anche il volto degli autori muta nel tempo.

Il libro – nel senso proprio e compiuto del codex latino, occidentale e cristiano – ha definito questo standard altissimo di immedesimazione tra un assente – e in genere defunto: l’autore – e i suoi presenti distanti, i suoi lettori, assegnando al corpo inerte delle pagine il compito di valicare il prima e il dopo, inteso sia come spazio sia come tempo.

Ecco perché il libro è ancora oggi il medium perfetto: perché è il simulacro presente di una voce assente, che attende ancora e per sempre di essere ridestata, diretta e ridetta.

Paradosso del libro: ente inerte, che attende la vita per attivarsi e ridestare la vita.

Tutto ciò è semplicemente tecnologia o, meglio, cultura mediata tecnologicamente.

Dunque, ben prima di quel nefasto 2020 che abbiamo attraversato come fanti in trincea sotto l’effetto di un nuovo tipo di gas, costretti a indossare maschere e guanti, trafficare con il filo spinato spianato tra i nostri occhi stanchi, ben prima di oggi abbiamo imparato a superare lo iato dell’assenza.

Siamo tutti discenti alla scuola dei grandi autori, dei grandi maestri. Solo l’altro giorno un amico mi condivideva al telefono la sua riscoperta di Heidegger e c’era, nel suo filo di voce al di là delle cellule ripetenti, tutto il fremito di un incontro con il grande tedesco, morto quando lui ed io muovevamo i primi passi, incapaci ancora di leggere e scrivere.

Insomma, l’uomo sa come si fa, anche se Socrate odiava i libri (almeno secondo Platone, Fedro, 274-276) – e noi siamo ancora qui a leggerlo, perché qualcuno fu così previdente da non dargli retta.

Ma la chiusura retrograda del grande ateniese aveva un centro di gravità esatto: era solo nel dialogo con il maestro vivo che gli allievi potevano davvero imparare, e non limitarsi a ripetere parole morte.

Socrate metteva dunque al centro della didattica la relazione diretta, che implica non solo un ascoltare, ma anche un vedere. Non solo un apprendere, ma anche un interrogare, ricevere e dare come dono reciproco e attivo, presente, vivo.

In questo senso egli aveva ragione: noi tutti abbiamo bisogno di maestri vivi – e i cristiani di oggi sanno bene quanto vuoto abbiano lasciato i maestri morti della nostra giovinezza, i nostri papi, i nostri santi, i nostri autori che hanno valicato la membrana del tempo.

In realtà, dunque, Socrate discuteva proprio il nostro tema: si può fare didattica a distanza?

Trovato un maestro vivo – o meglio una comunità di maestri, vivi e morti che siano – sì, si può anche fare, purché ci sia la volontà di imparare. Ed è questa condizione personale che viene anzitutto messa in crisi dal Covid: costringere i nostri figli e noi tutti a dirci che non è la società a imporci di imparare, ma che è una necessità prima per noi, per non rimanere all’età della pietra e per dare alimento alla nostra anima che perdura da qualche parte sotto la pelle, sotto lo stordimento generale di tutti i compraeconsumaqualcosa.click e derivati vari.

Ma qui, ma noi, siamo presi tra una serie di fuochi incrociati: continuiamo a dover imparare, e a doverlo fare mentre il tempo scorre rapido, cioè uguale a se stesso e non sulla base della nostra capacità di gestirlo.

Ed ecco infine il centro del nostro discorso: perché via sia didattica – nel triplice senso etimologico di “mostrare” (da, dak), “insegnare” (didaché, doceo) e “imparare” (disco) – deve prima esserci un incontro tra vivi e presenti: dunque, ogni inizio d’anno e ogni ripresa d’anno deve necessariamente essere in presenza, foss’anche solo per una settimana o un giorno solo: per guardarsi negli occhi, al di là dei fili aggrovigliati di tutte le fatiche e di tutti gli ego.

Quel tempo prezioso sarà il fondamento: se siamo qui è perché lo vogliamo – insegnare, imparare, essere presenti a noi stessi.

Dopo, e solo dopo, si dia libero corso a tutte le forme mediali, tecnologie di ieri e domani, che dilatino il nucleo primo, che lo rendano promessa compiuta, dentro le miserie della nostra inadeguatezza e dentro la passione della nostra creatività.

Solo così riavremo il discorso e il dialogo, dentro il nostro contesto di creature fragili.